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Los fantasmas

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VOTO: 6.5

Un affresco disperato sul Guatemala di oggi

Sono sguardi persi quelli dei protagonisti di Los fantasmas, presentato in anteprima italiana nell’ambito della sezione “Nuove impronte” del 21° Festival Internazionale “Shorts”, quest’anno forzatamente organizzato in forma prettamente virtuale. Nelle strade piene di squallore di Città del Guatemala, senza alcuna visione per un futuro, il giovane Koki (Marvin Navas), sbarca il lunario rimorchiando nei locali uomini in cerca di facili compagnie. Li conduce sempre nello stesso albergo e, consumata la serata, li deruba e divide la refurtiva con Carlos, il proprietario della struttura. Quest’ultimo è anche un wrestler (l’attore, Carlos Morales “El Punisher”, è davvero un lottatore), ma è evidente che, pur allenandosi e collezionando con fierezza i propri trofei, non può vivere dello sport che tanto ama. E’ innamorato di una prostituta che si esibisce cantando (male) nei ristoranti e, per cercare di far felici i pochi clienti dell’albergo, usa Koki anche in veste di guida turistica. Sono le due tragiche figure di una storia che, tutto sommato, più che raccontare cerca di illustrare la realtà odierna della capitale guatemalteca, dove l’alienazione e la mancanza di comunicazione sembrano essere l’unico scenario possibile per i suoi abitanti che vi si trascinano senza alcuna prospettiva. Diventano cioè essi stessi gli ultimi fra gli ultimi, gli invisibili fantasmi del titolo. Koki cerca qualche barlume di felicità tra le braccia della sua fidanzata Sofi (Daniela Castillo), un’altra persona che vive umilmente facendo la commessa in un modesto negozio di abbigliamento, ma sono momenti superficiali ed effimeri, come lo sono le vuote serate trascorse ai tavoli da biliardo. Questa vita, naturalmente, non può andare avanti in eterno e un evento traumatizzante potrebbe dargli finalmente la scossa per mollare le marchette, i quattro soldi che gli vengono elargiti dall’albergatore e la spaventosa fatiscenza in cui vive con la madre e un fratellino minore (che lo scambia perfino per il papà mai conosciuto). O forse no, perché probabilmente, anche trovando il coraggio di fuggire, nel Guatemala di oggi non esistono luoghi felici in cui provare a realizzarsi.
Sebastian Lojo, scrittore e regista del film, dopo aver viaggiato per Nord America ed Europa, torna nel suo paese natale per cercare di spiegare la tragicità attuale della società guatemalteca. Un mondo fatto di persone che comunicano poco, pur vivendo in città affollate, di persone che non sanno come vivere in modo sereno, che non hanno prospettive in un paese prostrato dalla sua drammatica storia fatta di colonizzazione, violenze e sfruttamento classista. Alla sua opera prima, supportato dall’ottima fotografia di Vincenzo Marranghino, sceglie di puntare tutto sull’espressività dei suoi personaggi, sui volti scavati da fatica e privazioni, e di ridurre quindi all’osso i dialoghi. Per meglio illustrare la quotidianità dei suoi antieroi, immersi in ambienti tristemente spogli e poveri, decide di girare scene lunghissime, con inquadratura fissa, in cui per interi minuti i protagonisti compiono azioni sempre uguali a sé stesse: mangiano cibi di bassa qualità, fumano per noia, lavano i propri vestiti o dormono in letti sbilenchi. Nei fatti, non è tanto la storia a dipanarsi che, tutto sommato, è piuttosto scarna e può essere brevemente riassunta in, volendo, poco più di mezz’ora di film.
L’intenzione di Lojo è invece quella di voler dare un’idea precisa di come sia la vita nel suo paese, di come la gente sia costretta ad affrontare giornate sempre uguali, fatte di silenzi, di scarsa interazione, con pochissimi stimoli culturali e nessun vero cambiamento all’orizzonte.
Naturalmente, questo pone la pellicola a metà tra la fiction e il documentario e, in alcuni casi, è necessaria comunque la pazienza e la concentrazione dello spettatore per seguire le numerose sequenze fatte semplicemente di forme e gesti che, in alcuni casi, possono appesantire la visione. Il talento e il gusto per le inquadrature, però, ci sono tutte nel giovane cineasta. A tal proposito, basti vedere la brillante sequenza d’apertura in cui veniamo precipitati nella fragorosa violenza quasi barbarica di un incontro di wrestling, con donne e uomini che si abbandonano a insulti e bassi istinti. E’ lo specchio perfetto dell’umanità che stiamo per incontrare.

Massimo Brigandì

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