Dimensione penombra
Tutto cominciò con un cortometraggio. Un’idea tanto semplice quanto efficace, sviluppata dal punto di vista formale in due minuti e quaranta secondi circa, con una trama basica a raccontare di una donna in completa balia del buio e di una (vera o presunta?) creatura che si annidava in esso. La diffusione su youtube, nel 2013, divenne virale, attirando le attenzioni di Hollywood. Così il giovane svedese David F. Sandberg (classe 1981), regista di questo lavoro breve, ha trovato lo sbocco verso la carriera sempre sognata, quella di cineasta con passione e preferenza per il cinema di genere horror. Ricevendo appunto da oltreoceano la proposta di “allungare” il suo corto sino a farne un vero e proprio lungometraggio.
Posta in questo modo, quella di Lights Out – il titolo originale del film è rimasto tale e quale a quello del corto, quasi come un marchio di fabbrica – sembrerebbe la classica favola a lieto fine. Purtroppo però nel cinema le dimensioni contano; e se una semplice intuizione interessante può essere sufficiente a divenire un fenomeno di proporzioni straordinarie nell’era da connessione globale che stiamo vivendo – aprendo peraltro interrogativi non da poco sulla distinzione tra realtà e virtualità, che non è certo questa la sede per approfondire – quando si tratta di costruirci sopra un testo cinematografico vero e proprio ecco che le magagne possono venire alla luce. E perdonate il gioco di parole attinente alla diegesi di un’operina che vorrebbe fare dell’oscurità, un po’ alla maniera lovecraftiana, il luogo astratto dove alligna qualsiasi orrore, da combattere solo attraverso la luminosità non solo fisica ma pure di pensiero. Tutto andrebbe benone, insomma, nelle intenzioni; se non fosse necessario misurare il tutto con una sceneggiatura talmente insulsa – opera di quell’Eric Heisserer già marchiato a vita per aver concepito su carta l’oltraggioso reboot di Nightmare (2010) – da riuscire ad essere allo stesso tempo inutilmente ingarbugliata ed inopinatamente prevedibile. Come da tradizione dunque il boogeyman di turno – ma attenzione al “sesso del demonio”, perché nell’occasione si chiama Diana e sposa in toto la vulgata anche visuale relativa al J horror, con la Samara di The Ring a fungere da fonte ispiratrice – si insinua nelle crepe di una famiglia in difficoltà, con una mammina (sempre professionale Maria Bello) sull’orlo di una crisi di nervi e (forse) perseguitata dalla misteriosa entità in questione. A tentare di porre rimedio alla situazione si cimentano la primogenita Rebecca (bella e brava Teresa Palmer, tra le poche note liete del film) con fidanzato inetto al seguito, impegnata a proteggere soprattutto il piccolo fratellastro Martin, nato da differente genitore maschile. Ovviamente è il padre biologico di Rebecca a fare una brutta fine, nel prologo di Lights Out – Terrore nel buio che ammicca sin troppo dichiaratamente al cortometraggio, grazie anche alla presenza di Lotta Losten, moglie del regista nonché unica protagonista in scena nello stesso.
Anche a livello di regia appare evidente come Sandberg abbia ben poco da dire oltre a muoversi nell’ambito della già menzionata opposizione penombra/luce. Inanellando una compilation di sequenze assolutamente ripetitive che alla lunga possono solo generare noia, tanto da far apparire gli stiracchiati ottanta minuti di durata del film quasi eterni. Peccato, perché in fondo Sandberg ricrea, teoricamente parlando, nel proprio film le condizioni esatte della fruizione cinematografica: qualcuno che osserva con terrore, in una penombra simile a quella di una sala, un qualcosa di illusorio muoversi di fronte a lui. Sottotesti di qualche pregnante suggestione, in aggiunta all’idea di un mondo che si muova nel buio con regole autonome e angoscianti; istanze che vengono però soffocate sul nascere da un prodotto troppo minimale, nella sua concezione ristretta del genere, per riuscire a pensare in grande. E stavolta non possiamo nemmeno prendercela con il vituperato Jason Blum, che nella produzione del film non c’è entrato per nulla. Semmai con James Wan (qui per l’appunto nelle vesti di produttore), il cui modello di cinema da spaventi improvvisi Sandberg cerca di imitare, talvolta pure riuscendoci ma solo giocando “sporco” verso lo spettatore. Ma soprattutto gli strali spettatoriali dovrebbero ricadere sulla New Line Cinema, la quale poco più di trent’anni fa donava agli appassionati del genere “da paura” il capolavoro destabilizzante Nightmare – quello primigenio di Wes Craven, beninteso – ed ora si barcamena con filmetti estivi di nessuna pretesa.
Il tempo passa, del resto. E pure male, verrebbe da affermare…
Daniele De Angelis