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Les fauves

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VOTO: 4.5

Se non vedo non credo

Estate. In un campeggio in Dordogna, nel sud della Francia, stanno scomparendo dei ragazzi. Circolano le voci più assurde, si parla di un feroce felino che si aggira nei paraggi. La tensione è alle stelle, gli animi si scaldano e la polizia brancola nel buio. Laura, diciassette anni, cerca di far luce sul mistero e fa la conoscenza di Paul, uno strano scrittore che l’attira e allo stesso tempo la spaventa e che sembra essere anche lui sulle tracce della bestia misteriosa. Mentre i due si avvicinano e nasce una relazione ambigua, scompare anche un innamorato respinto da Laura.

La bestia in questione è una pantera, che è l’unica cosa che ci è concesso dire per non incappare in qualche rivelazione di troppo che ha il gusto inconfondibile dello spoiler. Una presenza, questa, che non poteva passare inosservata agli occhi della direzione artistica e dei selezionatori del Noir in Festival, tanto da inserire il film che vuole la minacciosa antagonista nella rosa dei sette titoli in corsa per il Black Panther Award della 28esima edizione della kermesse milanese-comasca. E così che Les fauves di Vincent Mariette ha avuto la sua occasione all’interno di una competizione dove, vista la potenza di fuoco delle dirette avversarie e le tantissime debolezze in essa riscontrate, difficilmente – salvo clamorose sviste della giuria presieduta dalla cineasta cinese Ning Ying – riuscirà a portare a casa un riconoscimento. Forse qualche minima speranza di affacciarsi nel palmares può avercela Lily-Rose Depp, figlia del più noto Johnny, che nel ruolo della co-protagonista offre una convincente performance, ma non sufficiente a risollevare le sorti di una pellicola che si scioglie come neve al sole.

La performance dell’attrice parigina, alle prese con un personaggio ambiguo e ben delineato caratterialmente, rientra purtroppo per noi e suo malgrado in un’opera che presenta vistose crepe strutturali nell’architettura narrativa e drammaturgica, a cominciare dagli sviluppi, passando per gli snodi sino ad arrivare alle risoluzione. Trattasi si fragilità e inconsistenze tali da minare strada facendo lo script e di conseguenza la sua trasposizione, con la scrittura in tutto e per tutto carnefice e prima responsabile di una lenta e inesorabile caduta al di sotto della line di galleggiamento della sufficienza. In Les fauves si fa fatica a tenere quantomeno viva l’attenzione, perché lungo il percorso disegnato sulla timeline la linea mistery e il rapporto che lega i due personaggi principali tendono a perdere di efficacia, scorrevolezza e interesse, sino a sgretolarsi. Nemmeno il twist posizionato quasi in prossimità dell’epilogo riesce a risollevare le sorti di un film che sulla carta prometteva qualcosa che il risultato, al contrario, non ha saputo restituire al pubblico. Ciò che scorre sullo schermo si poggia quasi interamente su queste due direttrici che si intersecano per dare origine a quella che il regista stesso ha definito «una storia di una ragazza un po’ ai margini, che cerca il romantico, il fantastico per sfuggire alla routine quotidiana, che trova nel bizzarro personaggio dello scrittore interpretato da Laurent Lafitte».

All’insegna del se non vedo non credo, Les fauves è un film sulla fede e sull’atto del credere in generale, ma non nell’accezione religiosa del termine (un po’ come era stato a suo tempo per la popolazione di The Village), piuttosto nell’illusione che assume le forme di un pantera inafferrabile, come la fede nell’amore per Laura e Paul, i protagonisti del film. Il “re-incantamento del mondo” al quale il maestro tenta di iniziare la sua allieva, porterà a una rivoluzione dei sentimenti e alla consapevolezza che anche per i due protagonisti l’amore può esistere. Esattamente come quella dell’animale alla quale danno la caccia. E la mente non può non tornare al rapporto che lega i personaggi di Léon. Il che spalanca le porte al romanzo di formazione o deformazione a seconda del punto di vista che lo spettatore di turno decide di sposare. Il tutto calato all’interno di un film ibrido in termini di genere d’appartenenza e di ambientazione bucolica, nel cui DNA si affacciano un po’ di noir, di poliziesco, di giallo, di dramma generazionale e di thriller. Colori che nella tavolozza imbastita da Mariette si mescolano senza soluzione di continuità e che nell’atto di fusione generano solo una caotica esecuzione.

Francesco Del Grosso

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