Gli Stati Uniti avvelenati dagli oppiacei
Dispersi nella sconfinata provincia americana, i Conley cercano di sbarcare il lunario vendendo sottobanco farmaci a base oppiacea. I tre fratelli sono particolarmente uniti poiché, a quanto pare, i loro genitori in un modo o nell’altro li hanno abbandonati da un pezzo e, per crescere e sopravvivere, hanno dovuto contare solo l’uno sull’altro. Josie (Margarita Levieva) è la sorella maggiore, quella più dura e intransigente del trio, è la vera confidente di Kip (Josh Hartnett), che è un reduce dell’Afghanistan tormentato dai ricordi della sua esperienza di guerra, mentre Boots (Owen Teague) è il più giovane ed è anche quello che sembra più fragile e ingenuo. Si muovono in uno scenario contemporaneo che ormai conosciamo a memoria: una cittadina anonima, poco lavoro malpagato nella fabbrichetta di zona, e giornate tutte uguali passate a trascinarsi tra il proprio pickup, lo squallido bar in cui fare il pieno di birra e le lunghe serate sotto il portico di un’abitazione povera a tracannare altro alcool e fumare. In questo ambiente in cui sognare e fare progetti luminosi è impossibile per chiunque, i fratelli Conley hanno capito che gli unici soldi che possono fare sono quelli che si ottengono spacciando pasticche di ossicodone, una sostanza molto simile alla morfina e vicina all’eroina. Chi ne fa uso riesce a placare il proprio dolore, non solo quello fisico, ma ne diviene dipendente e, col tempo, finisce per crepare, magari nel puzzolente cesso di qualche bar come una delle clienti di Josie. Le cose, dunque, non sono affatto facili e Kip, che ha la propria compagna (Tara Buck) in procinto di partorire una bimba, sa che questa vita deve in qualche modo finire. Quando anche Books decide di voler far parte del giro, pensando che fare il pusher sia tutto sommato una passeggiata, il disastro non tarda a mandare all’aria degli equilibri già precari. Per Kip è il momento di dire definitivamente basta, ma ovviamente non è così semplice quando è lo spaccio ad essere l’unico mezzo di sostentamento per te e la tua famiglia.
Questo film gelido, dall’eloquente titolo L’eredità della vipera (in originale Inherit the Viper), in cui non c’è mai realmente un momento in cui i protagonisti sorridono, è la vera prova d’esordio per il regista Anthony Jerjen, fino ad ora impegnato solo in cortometraggi. La terrificante provincia a stelle a strisce sembra affondare sempre più in un eterno presente fatto di veterani di guerra disincantati, onnipresenti circoli degli alcolisti anonimi, operai poveri e ragazzi incapaci di pensare a qualcosa che non sia drogarsi e fare soldi rivendendo droga. Forse le cose stanno proprio così, forse questi film tendono a fotografare una situazione disarmante e angosciosa in cui esagerano, non possiamo saperlo. Certo è che la sensazione di già visto permea costantemente questa pellicola che, comunque, è molto ben girata e ha dalla sua un cast di attori bravi e convincenti. Probabilmente, a farci coinvolgere dalla storia facciamo fatica anche perché il problema di cui si parla, gravissimo, è legato ad un’emergenza sanitaria dichiarata negli USA durante questi ultimi anni: la morte per abuso di farmaci oppiacei. Emergenza, però, di cui sappiamo pochissimo nella nostra vecchia Europa e di cui la sceneggiatura non si cura affatto di chiarire i contorni. Sapere di cosa esattamente si parla è possibile, leggendo alcuni sconvolgenti articoli su siti d’oltreoceano, per cui scopriamo esistere una pericolosissima epidemia di decessi legati all’utilizzo di questi medicinali, sempre più diffusi anche fra i giovanissimi. Una sorta di droga dei poveri dagli esiti letali. Un vero e proprio veleno che scorre nella società malata d’America, cui fa riferimento il titolo grazie ad una metafora brillantemente usata da Clay, il malaticcio proprietario della bettola del posto (Bruce Dern, sempre efficace). Purtroppo, pur volendo affrontare un argomento molto delicato, il film pare voler correre, approfondendo poco tematiche che sarebbe stato utile conoscere in modo più dettagliato. Rimane il dramma di una famiglia americana odierna che, nel mondo arido in cui viviamo, non ha alcuna reale prospettiva, se non quella di tirare a campare. Ma negli ultimi anni di storie del genere, su cui rammaricarci impotenti, ne abbiamo viste davvero tante. L’elemento portante del racconto, la tragedia dell’ossicodone, dovrebbe distinguere questa vicenda da altre, finisce invece per fare da sfondo a personaggi che si annacquano strada facendo in una serie di cliché. Peccato, ma Jerjen siamo sicuri abbia le carte in regola per fare di meglio.
Massimo Brigandì