Il mosto dell’Inferno
Cinquant’anni fa Dino Buzzati, commentando una delle sequenze de Il pianeta acciaio, utilizzò una definizione che udita ai giorni nostri non può che fare rabbrividire. Descrivendo le lavorazioni nell’altoforno di quegli stabilimenti che a distanza di qualche decennio prenderanno il nome di ILVA, al cospetto delle immagini filmate da Emilio Marsili per il documentario industriale del 1964, lo scrittore e giornalista veneto paragonò i materiali incandescenti prodotti nella fabbrica tarantina a una “zuppa del demonio”. Riascoltarla oggi, infatti, significa automaticamente fare i conti con la sofferenza e il dolore di migliaia di persone, ma ieri aveva ben altra accezione, poiché legata a un’idea di fascinazione nei confronti di una tecnica, di un progresso e di un’industrializzazione che nel progredire avrebbero reso il mondo migliore in termini di qualità della vita e di sviluppo economico. Mezzo secolo dopo quelle parole risuonano come un triste presagio, ma all’epoca, almeno sino alla crisi petrolifera del 1973-’74 che interruppe bruscamente il tanto decantato “miracolo italiano”, in quella zuppa così invitante hanno voluto intingere tutti.
Davide Ferrario prende in prestito proprio quella definizione per battezzare il suo nuovo documentario che, a differenza di quanto si potrebbe immaginare non racconta né la tragedia tantomeno la cronaca giudiziaria riguardanti l’ILVA (a farlo ci hanno pensato da prospettive diverse i recenti Maldimare e Buongiorno Taranto), piuttosto sposta l’attenzione su quella che lui stesso definisce “l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso”. Cosa c’era alla base di quel sogno? Cosa spingeva l’uomo a migliorare ciò che lo circondava, rendendolo sempre più tecnologicamente avanzato? Sono queste le domande alle quali Ferrario cerca di dare delle risposte, lasciando che siano solo ed esclusivamente i preziosissimi materiali di repertorio dell’epoca a farlo e al loro montaggio il compito di esprimere il punto di vista di coloro che lo hanno realizzato. Il regista di Dopo mezzanotte setaccia in lungo e in largo l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea (struttura fondata nel 2006 da Sergio Tuffetti e appartenente al Centro Sperimentale di Cinematografia), attingendo a piene mani da un vero e proprio patrimonio di oltre 60.000 bobine prodotte dal lontano 1910 da numerose aziende nostrane (dalla FIAT alla Olivetti, dalla Peroni alla Italgas, passando per la ENI e le Ferrovie dello Stato) per dare vita a un film di montaggio che ha il sapore inconfondibile di un’epopea fatta di invenzioni e idee che hanno segnato il Novecento (dalle automobili alla catena di montaggio, dall’elettricità al nucleare).
La costruzione degli stabilimenti pugliesi diventa, quindi, uno dei tanti tasselli che vanno a comporre il mosaico audiovisivo firmato dal regista piemontese, presentato in anteprima nel fuori concorso della 71esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e nelle sale a partire dall’11 settembre con Microcinema. Il risultato trascina lo spettatore in un flusso di immagini e suoni che vengono rigorosamente dal passato (fatta eccezione per un breve prologo girato da Ferrario con una macchina da presa che esplora i padiglioni deserti di una fabbrica dimessa) per restituirci un ritratto di ciò che eravamo, ma anche la misura di ciò che nel bene e nel male siamo diventati. Evitando interviste, didatticismi e discorsi di tipo storico, politico o sociologico, il regista assembla una carrellata di repertori che trasudano dallo schermo il senso di energia che animava il sessantennio che va dal 1911 alla già citata crisi petrolifera. Lo fa mescolando senza soluzione di continuità fotogrammi, voci e suoni originali, arricchendo il tutto con citazioni varie rubate a grandi nomi della letteratura, del giornalismo e della Settima Arte (da Pier Paolo Pasolini a Filippo Tommaso Martinetti, da Carlo Emilio Gadda a Primo Levi, passando per Italo Calvino, Giorgio Bocca, Luciano Bianciardi ed Ermanno Olmi).
Con La zuppa del demonio, Ferrario dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio quando decide di misurasi con il cinema documentaristico (fatta eccezione per lo scivolone avuto con Piazza Garibaldi), trovando in esso la spinta propulsiva per risollevarsi dalle cadute avute con alcune pellicole di finzione di ieri e del recente passato (vedi La luna su Torino). Qui riesce a tirare fuori il meglio dalla materia filmica a sua disposizione, nonostante questa fosse logorata dallo scorrere inesorabile del tempo, restituendo ad essa una nuova esistenza. Non ha paura di sperimentare soluzioni di montaggio spesso ardite, a giocare a re-inventare il senso e il significato delle cose e dei fatti, ma senza manipolarli per fini ideologici. Ne viene fuori una partitura cinematografica di grande efficacia, utile a scoprire o a riscoprire tracce importanti del nostro dna storico, resa possibile dall’attento e certosino lavoro di ricerca e recupero dei suddetti materiali, ma soprattutto da una complessa e determinante fase di editing.
Francesco Del Grosso