A tutto ciò che non accadrà più
Il tempo ordinario, ribadisce Avati a una platea di spettatori che potenzialmente lo ignora, è quello liturgico: la quattordicesima domenica è quella in cui i due giovani protagonisti del suo nuovo film, Marzio (Lodo Guenzi) e Sandra (Camilla Ciraolo) si sposano.
Quando al regista viene chiesto quali siano i riferimenti per orientarsi nella sua nuova opera – l’ultima di quasi cinquanta pellicole all’attivo – quest’ultimo decide di ripartire proprio dal momento del suo matrimonio, quello in cui più di ogni altro nella sua vita si è sentito veramente felice.
Il riferimento reso esplicito è la bussola con la quale orientarsi: questa lunghissima filmografia che ha consacrato uno dei maestri della nostra storia del cinema, caratterizzata da un infinito eclettismo e una insormontabile diversità di generi, mancava ancora di uno sfogo personale e intimo, di un “film che fosse davvero sincero”.
Il richiamo a un tempo passato è reso evidente, del resto, fin dalla prima sequenza. Quel posto speciale di Bologna, il chiosco di gelati dove tutto ebbe inizio, dove “le cose che sognavi accadevano”, è inquadrato attraverso una lente in bianco e nero, che sembra quasi un lontano fermoimmagine: la dichiarazione programmatica di un sentimento nostalgico che sarà la traccia di fondo di tutta la storia.
Così la narrazione de La quattordicesima domenica del tempo ordinario si dispiega tra le due linee temporali del tempo passato (il periodo a cavallo tra anni ’70 e ’80, con la storia di amicizia e di amore tra Marzio, Samuele e Sandra) e quello presente, dove Edwige Fenech, Gabriele Lavia e Massimo Lopez interpretano i personaggi ormai cresciuti e invecchiati, lontani tra loro e persi nelle trame di vita inaspettate e decadenti.
Tutto a ben vedere, nei personaggi adulti, lascia trasparire con brutalità questa decadenza: non soltanto il suicidio – reale e simbolico – di uno dei tre amici, ma anche il loro aspetto, le loro abitudini, le loro voci. La presenza di due attori che rappresentano uno specifico momento cinematografico della nostra storia e che da tempo non comparivano sul grande schermo (entrambi hanno cessato le loro apparizioni cinematografiche e televisive tra il 2012 e il 2015) è sicuramente una scelta strategica e dal grande impatto iconografico. In tal senso, ancor più di Lavia, che ci appare nei panni di un rocker con la crisi di mezza età (pantaloni attillati, poster della sua band in un appartamento dallo stile moderno), risulta impattante la figura della Fenech: l’icona erotica di riferimento degli anni ‘70/’80, protagonista insieme a Barbara Bouchet, Laura Antonelli, Gloria Guida del filone della commedia sexy che proprio in quegli anni creava nuovi immaginari sessuali e scardinava i riferimenti di genere della nostra cultura, adesso ritorna nei panni di un ruolo melodrammatico, a tratti melenso, di una donna che si fa prestare i vestiti da amici, che non ha un soldo e che non sa dove andare a dormire.
La macchina da presa mette un filtro desaturato anche sul suo volto, lasciando trasparire il segno tempo. La bellezza della Fenech è eterna, ma viene completamente stravolta di significato: non è più quella di una donna seduttrice, ma di un personaggio perso e solo, che chiede aiuto e che vuole essere salvato. La rielaborazione dell’immagine dell’attrice sembra richiamare quella che Ettore Scola, in quel lontano 1977, compiva con la Loren: anche in Una giornata particolare infatti venivano a poco a poco tolti i colori e la carica sensuale del corpo della donna, le cui gambe – che per intere generazioni erano state il richiamo simbolico dell’universo femminile – venivano rivestite di collant smagliati e pantofole bucate.
La patina grigia del resto, oltre ai personaggi, non risparmia neanche i luoghi. Le strade di Bologna, quelle stesse strade che un tempo brillavano dai toni accesi, adesso sono buie, immerse in una stagione invernale, al più riprese durante le ore notturne. Tutto sembra già vecchio, anche il presente diegetico. Marzio che scalpita ormai arrancando in un programma televisivo dall’estetica grottesca, le inserzioni pubblicitarie e gli arredamenti di interni. Tutto sembra richiamare, prima ancora dell’oggi, un’atmosfera tipica dell’inizio degli anni ‘2000 – compresa la colonna sonora di Sergio Cammariere – come a sottolineare non un presente, ma un immediato passato.
Niente è presente nel mondo di Pupi Avati, perché per il presente non c’è più spazio.
Cosa rimane, dunque, di questi percorsi? A ben vedere, ciò che rimane più impressa nella memoria, è proprio questa patina di un tempo lontano. Essa sembra avvolgere non solo i protagonisti, le strade, i ricordi e, in definitiva, il film, ma anche lo stesso regista, che a fine proiezione ribadisce a gran voce l’appartenenza a un altro tempo che non è il nostro.
Così, ancor più che il ricordo di un tempo personale passato, il mezzo filmico è oggi nelle mani del regista bolognese, lo strumento con il quale esprimere il proprio disagio nel mondo.
Come spesso accade ai nostri autori, in particolare alla generazione dei padri – si veda il caso recente del ritorno di Moretti – cinema e realtà si fondono. Lo ribadisce lo stesso Avati: “spesso confondo i miei film con la vita”. Questo accade non solo perché effettivamente di film, Pupi Avati, che ormai porta con onore i suoi 84 anni, ne conta veramente tanti, ma anche e soprattutto perché il cinema di Avati è l’espressione del senso di appartenenza a un differente universo ideologico, narrativo, religioso e culturale.
La patina grigia che scandisce le sequenze del film è il distacco da questa contemporaneità in cui Pupi Avati non si vuole ritrovare né da regista (nuovamente, a fine proiezione, produttori ed esecutori si accaniscono difendendo la sala, con un sentimento di rabbia che cela paura), né soprattutto, da uomo.
Tutto ciò che resta, da questo filtro del tempo, è una resa finale – a tratti una disfatta. L’ossessione quasi ridondante per quel chiosco di gelati è la fine – implicita o esplicita – di questo processo. Lo dichiara lo stesso regista, in una confessione al pubblico quasi catastrofica, che in sala lascia sicuramente più amareggiati rispetto alle attese di speranza del film: “spesso sono tornato in quel chiosco di gelati, e mi sono continuato a sedere con l’illusione che accadesse qualcosa di significativo. Che però non è mai accaduto.”
Silvia Campisano