La mamma è sempre la mamma
Se pensiamo a una figura come quella del celebre romanziere Roman Gary (nato Romain Kacew), non può non venirci in mente la sua prolifica carriera e il grande numero delle sua opere letterarie (senza contare anche i due lungometraggi realizzati, sebbene non abbiano riscosso un grande successo da parte sia di pubblico che di critica). Eppure, quasi nessuno conosce la sua storia (fatta eccezione, ovviamente, per l’aneddoto che lo vuole sposato per un breve periodo all’attrice Jean Seberg), o perlomeno, la storia della sua infanzia, salvo chi ha letto il suo romanzo autobiografico “La promessa dell’alba” (scritto nel 1960), da cui sono stati tratti ben due lungometraggi: uno – La promessa all’alba – realizzato nel 1970 da Jules Dassin, l’altro del 2017, La promessa dell’alba, appunto, per la regia di Éric Barbier, con protagonisti Charlotte Gainsbourg e Pierre Niney.
Ed è proprio questo ultimo lavoro di Barbier ad aver voluto ricalcare il più fedelmente possibile il romanzo originale di Gary, con tanto di rischiosi salti temporali che vedono il protagonista ora bambino – durante la sua infanzia in Lituania, insieme alla madre Nina – ora adolescente – nell’aristocratica Nizza – ora appena ventenne, arruolatosi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il tutto, incluso in una cornice in cui vediamo il protagonista ormai quarantaquattrenne in piena crisi esistenziale e che crede di stare per morire, supportato dalla prima moglie, la quale, a sua volta, legge per prima il manoscritto contenente la biografia del marito. Troppi livelli spazio-temporali messi insieme? Può darsi. Eppure, malgrado la cosa possa funzionare molto bene in letteratura (come, d’altronde, è stato per l’opera di Gary) ma risultare, altresì, assai problematica in ambito cinematografico, bisogna riconoscere che la decisione del regista di suddividere in modo quasi netto i tre periodi della vita di Gary – con tanto di cornice, ovviamente – si è rivelata forse la più adatta a mettere in scena qualcosa di così strutturalmente complesso.
All’interno di una struttura così ben suddivisa, però, quello che assolutamente non convince è proprio la cornice, che sta a rendere il tutto eccessivamente didascalico – con una voice over continuamente presente, anche nei momenti rappresentanti il passato – per non parlare del personaggio della stessa moglie di Gary, con tanto di commenti all’opera che sta leggendo e battute decisamente posticce, che danno quasi l’impressione di essere state scritte in modo del tutto frettoloso.
Al di là, dunque, di alcune scelte registiche che, se da un lato hanno ben saputo gestire tempi e spazi, dall’altro hanno inevitabilmente finito per conferire al tutto un taglio quasi televisivo, bisogna riconoscere che il rapporto madre-figlio qui messo in scena (dove una madre eccentrica e autoritaria ha inevitabilmente segnato la vita e la stessa carriera di suo figlio) è decisamente riuscito, grazie anche – e soprattutto – alle ottime interpretazioni della Gainsbourg (senza paura di esagerare, si potrebbe addirittura affermare che a lei tutto è concesso) e del giovane Pierre Niney, il quale non sembra neanche risentire di un trucco eccessivamente pesante, al fine di apparire più “anziano”.
Marina Pavido