Tana Libera tutti
A quattordici anni dall’esordio e sei lungometraggi alle spalle (ai quali si vanno ad aggiungere documentari, cortometraggi, serie tv e spettacoli teatrali), per Giulio Manfredonia è tempo di bilanci, almeno dal punto di vista delle scelte fatte sino a questo momento, ossia l’uscita nelle sale della sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo La nostra terra. Analizzandone attentamente con la lente d’ingrandimento la filmografia, infatti, è possibile sezionarla in due grossi tronconi, ciascuno dei quali composto da tre pellicole: da una parte le commedie corali (Se fossi in te, Si può fare e la già citata La nostra terra), mentre dall’altra quelle disegnate su e intorno a un unico interprete che risponde al nome di Antonio Albanese (È già ieri, Qualunquemente e Tutto tutto niente niente).
A nostro avviso la sensazione che si avverte – ed è proprio la visione del suo ultimo film a confermarcela – è che il regista romano, nipote e allievo di Comencini, riesca a dare il suo meglio proprio quando non deve mettersi al completo servizio di Albanese e delle sue maschere. Quasi si sentisse ingabbiato dalla presenza ingombrante dell’attore, Manfredonia non riesce a rendere al meglio proprio quando è costretto a svolgere il suo lavoro in funzione delle performance di quello che si può considerare un vero e proprio mattatore. Di conseguenza, è nelle commedie corali, ossia dove ha a disposizione più interpreti e una maggiore libertà di movimento drammaturgico, che trova la dimensione ideale, offrendo e raccogliendo al e dal pubblico i frutti migliori.
Come volevasi dimostrare, La nostra terra è un’opera brillante e a tratti paradossale, di evasione intelligente, scritta a quattro mani con il sodale Fabio Bonifacci, che senza predicare, moraleggia con garbo e ironia. Qua e là s’ingorga, ma ha ritmo e agilità, poiché recitata senza strafare da un cast variegato (uno su tutti Sergio Rubini nel ruolo di Cosimo, ma anche un convincente Accorsi nei panni di Filippo) che sa dosare e sfruttare lo humour nero dei dialoghi e i repentini cambi di registro che alternano il serio al faceto. Ispirato a fatti realmente accaduti e all’esperienza di più Associazioni antimafia, tra cui Libera di Don Luigi Ciotti, il film ha il merito di dimostrare ancora una volta (vedi La mafia uccide solo d’estate di Pif) che su certi argomenti delicati e scottanti si può sorridere e usare toni leggeri senza necessariamente andare a intaccare la suscettibilità di qualcuno.
Ne viene fuori un racconto polifonico che parla di lotta alla mafia e non solo (lo spettro del racconto si allarga anche all’integrazione, alla redenzione, alla capacità di prendere decisioni anche difficili e al sapersi mettere a disposizione dell’altro con il volontariato), preferendo alla satira e alla parodia uno humour sorprendentemente epurato dallo stereotipo e dalla battuta facile. Lo script è ben costruito ed equilibrato, a cominciare proprio dalla costruzione tridimensionale dei personaggi che lo animano, ciascuno dei quali disegnato con sfumature e peculiarità caratteriali. È un film che ha, quindi, nella scrittura la colonna portante, anche se c’è da sottolineare la ripetitività di un modello drammaturgico che lo stesso Manfredonia aveva già utilizzato in Si può fare, con il quale è possibile individuare non pochi punti in comune.
Francesco Del Grosso