Storia delle vittime dimenticate
Il 2020 è stato uno spartiacque per l’umanità intera; ormai si parla sempre più spesso di A.C. e D.C. come Ante Covid e Post Covid, la pandemia che ha cambiato il mondo. Gli effetti – in primo luogo politici ed economici – a lungo termine li stiamo scoprendo poco alla volta, ma non è di questo che vuol parlare Alessandro Amori, con il suo documentario La morte negata. Dopo Invisibili, in cui dava voce alle vittime del discusso vaccino anti Covid19, ora la testimonianza passa alle vittime dello stato di emergenza pandemica, i familiari di chi ha perso i propri cari nel buco nero dei reparti Covid degli ospedali, entrati per curarsi ed usciti in sacchi neri e bare sigillate senza poter avere il conforto dei propri affetti, lasciati fuori spesso – troppo spesso – nel silenzio e nell’assenza di comunicazioni.
Con La morte negata, Amori non mette in discussione “vaccino sì-vaccino no”, ma mostra, con una lucidità che spezza il cuore, quali siano state le conseguenze di una gestione pandemica che ha perso di vista quello che è l’elemento fondante dell’essere umano: l’umanità, appunto. Le testimonianze di chi ha visto ‘rubare’ la propria madre, il padre, il marito, la moglie, vittime di protocolli e linee guida seguiti meccanicamente da medici ed infermieri di ospedali e case di cura sono il fulcro di questo toccante e potente documentario: morti che si potevano evitare, crudeltà e sevizie che riportano alla mente un passato non troppo remoto, ponendo interrogativi e costringendo lo spettatore, da qualunque parte si fosse schierato, a toccare con mano la disumanità di un servizio sanitario che – con le dovute eccezioni, cui va il nostro plauso – ha trasformato i propri pazienti in numeri, spersonalizzandoli. Un processo iniziato negli anni Novanta del secolo scorso, con la trasformazione degli ospedali in Aziende: la riforma De Lorenzo del servizio sanitario nazionale (Decreto Legislativo n. 502/1992) ha svincolato le unità sanitarie dall’organizzazione centrale a livello nazionale, dotandole di una propria autonomia organizzativa, giuridica, amministrativa e, eccolo il nodo, imprenditoriale. Lo stesso decreto, prevedeva inoltre la creazione di un sistema sanitario parallello ed alternativo al servizio sanitario nazionale, di competenza delle assicurazioni e di mutue volontarie, sul modello statunitense: è l’inizio della fine per la sanità pubblica, che diventa a tutti gli effetti una Azienda con interessi privatistici. Non è più la salute, la cura, l’obiettivo di fondo delle strutture sanitarie, ma piuttosto gli interessi economici di raggiungere un maggiore profitto.
È dello scorso anno il documentario C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando di Federico Greco e Mirko Melchiorre, che, parafrasando lo sterminio compiuto in Indonesia tra il 1965 e il 1966 dove furono uccise quasi un milione di persone, racconta proprio la disfatta della sanità italiana, con la chiusura di gran parte degli ospedali sul territorio nazionale (soprattutto al sud) conseguente proprio alla riforma degli anni Novanta e alle successive. La lotta per la riapertura dell’ospedale di Cariati, in provincia di Cosenza, è solo una barricata contro lo smantellamento del Servizio Sanitario Nazionale, vittima di un liberismo imperante e disumano. Un punto di vista importante da cui partire per capire – ma non dimenticare – parte di ciò che è accaduto negli ospedali italiani durante la pandemia di Covid19. A queste motivazioni prettamente economiche, possiamo aggiungere senza remore quelle psicologiche e sociali; la depersonalizzazione del paziente (cui profeticamente alludevano le opere di Ivan Illich sin dagli anni ’70) ha reso più facile l’applicazione pedissequa di protocolli e linee guide che, non tenendo conto della singolarità della persona, ha livellato tutti i malati verso il basso, fornendo cure troppo spesso inadeguate, isolandoli dai propri affetti, lasciandoli soli verso un destino di morte inevitabile quando invece, in molti, troppi casi, avrebbe potuto essere evitata. Le testimonianze dei familiari de La morte negata colpiscono dritto al cuore; fanno piangere, fanno arrabbiare. Persone fiduciose nel nostro sistema sanitario, che hanno accompagnato la moglie, la madre, il padre, in ospedale per essere curati, e non li hanno più rivisti, neppure nella bara, irrevocabilmente sigillata. Persone asintomatiche ricoverate a forza perché non vaccinate. Persone cui è stata interrotta, immotivatamente, una cura che stava avendo risultati positivi. Persone ignorate dai medici, sedate con dosi massicce di psicotici, seviziate fino al raggiungimento della morte liberatoria. Una morte rimasta incomprensibile per molti familiari; mariti, mogli, figli, distrutti da una tragedia senza pari, impossibilitati finanche ad elaborare il lutto per la propria perdita, nella mancanza del contatto con il corpo privo di vita dei propri cari.
Eccola, la morte negata; la morte di centinaia di persone da sole, avvolte in lenzuola imbevute di candeggina, chiuse in un sacco nero e sepolti in bare sigillate senza che nessuno potesse vederli un’ultima volta. Una morte negata ai familiari, cui è stato vietato il conforto di una carezza, il poter essere vicino ai propri cari negli ultimi momenti. Il massimo consentito erano le videochiamate, ma non per tutti. E nell’assenza di un contatto umano, non solo con il proprio familiare ma finanche con i medici, i dubbi di chi rimane si accavallano, così come i sensi di colpa: se non avessi convinto mia moglie ad andare in ospedale, avranno fatto davvero il possibile per salvare mia madre, cosa è successo davvero a mio marito. A “sostanziare” ulteriormente l’anormalità di tali perdite, nei brevi ma oltremodo significativi segmenti onirici/metafisici da cui La morte negata assume anche l’impronta della docu-fiction, la presenza in scena dell’attore Antonio Bilo Canella: per tanti anni anima del Cineteatro di Roma, qui ritratto di anima sofferente, in quanto costretta ad allontanarsi dal proprio corpo in circostanze disumane.
Sotto i riflettori, tornando al versante documentaristico, un approccio sanitario difensivo che ha generato protocolli standardizzati, strumenti di disimpegno morale e depersonalizzazione della responsabilità; ma la morte non può essere protocollata, è un momento di passaggio importante nella relazione tra individui, che genera emozioni essenziali e che necessita di un riconoscimento reciproco, da parte di chi ci lascia e di chi resta. Riconoscimento che, nell’irrazionale gestione pandemica di malati e sani, è stato negato ad entrambi.
Michela Aloisi