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La mesita del comedor

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VOTO: 8

Stare scomodi sulla poltrona, per colpa di un tavolino

Avvertenza per i lettori: qualora siate fermamente intenzionati ad andare all’Ikea per qualche acquisto, non guardatevi prima questo film, potreste cambiare idea all’improvviso. In ogni caso La mesita del comedor (ovvero Il tavolino di vetro) è tra le opere cinematografiche più disturbanti viste negli ultimi tempi. Prossimamente verrà anche distribuita nelle sale da Exit Media. Intanto la si è potuta vedere al Cinema Barberini, nel corso della 17esima edizione de La Nueva Ola – Festival del Cinema Spagnolo, laddove il cineasta iberico Caye Casas ha sorpreso tutti, sia per il tono spiritoso, arguto, brillante, col quale ha saputo introdurre questo suo lungometraggio venuto dopo Matar a Dios; sia per l’originalità, la cattiveria e la sulfurea ironia dello stesso. Praticamente il regista ha capito come far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona di un cinema, usando quale catalizzatore di tutte le energie negative un banale tavolino di vetro.

Semmai è una bella rogna, per chi deve scriverne adesso, fare riferimento alla trama del film senza “bruciare” quel diabolico coup de théâtre da cui discende poi tutto il resto. Cercheremo il più possibile di girarci intorno senza rivelare troppo. Fatto sta che protagonista dell’opera è una coppia che ha da poco avuto un bambino, coesa per certi aspetti, ma già pronta a scannarsi verbalmente per quelle seccature della vita quotidiana inerenti, ad esempio, alla scelta dei mobili per la nuova casa. Sarà proprio la discussione intorno a un tavolinetto di dubbio gusto ad accendere ulteriormente gli animi. E il – più o meno – scaltro venditore (sul cui vetusto nome di battesimo aleggia pure, altro topos rilevante, una beffarda aura “franchista”) riuscirà comunque a indirizzarli verso un acquisto, che avrà conseguenze nefaste manco fosse la maledetta scatolina di Hellraiser.
Quasi come se una “piccola bottega degli orrori” rivisitata prendesse forma di mobilificio svedese. Un incipit folgorante, questo, introdotto peraltro da quei titoli di testa che, in sintonia con un’apprezzata tradizione iberica e soprattutto “almodovariana”, sono tra i più creativi e stilosi nei quali ci si è recentemente imbattuti. Partendo così, ben presto si approderà all’infrazione di un rilevante tabù cinematografico (e non solo), in grado di imporre una brusca sterzata alla narrazione. Di lì in poi infatti il piano del grottesco e quello della tensione pura continueranno a intersecarsi, producendo cortocircuiti clamorosi nei personaggi del racconto come pure nel pubblico. Poiché da quel momento nulla è realmente recuperabile. Nulla potrà tornare ad essere come prima.

Difficile da incasellare in un genere ben preciso, La mesita del comedor riesce abilmente a combinare il tono sanguigno, beffardo e incline all’humour nero di tanto cinema realizzato in Spagna (già la dimensione “condominiale” fa pensare ad Álex de la Iglesia) e quella tensione continua, dovuta al misfatto da nascondere a tutti i costi, che genera ansia e un persistente disagio nello spettatore. L’orrore celato nella realtà, in pratica. E nel creare un’atmosfera di tale spessore Caye Casas pare indirizzarsi da subito verso i riferimenti giusti, dalla narrativa di Edgar Allan Poe all’Hitchcock di Nodo alla gola.

Stefano Coccia

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