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Matar a Dios

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VOTO: 8

Dio esiste e vive da vagabondo

Un paio di anni fa avevamo appreso che Dio esiste e vive a Bruxelles. Il divertissement metafisico del belga Jaco Van Dormael, qui a una delle sue prove migliori e ben coadiuvato dallo sceneggiatore Thomas Gunzig, del credo monoteista proponeva una visione alternativa, trasgressiva, satirica, finanche catartica, in grado cioè di metterne in discussione dogmatismo, severità e carattere patriarcale attraverso una scrittura filmica intelligente ed empatica. A un film così corrosivo nei confronti delle cosiddette religioni abramitiche (con il loro carico di oscurantismo, sostituito qui in corsa da una visione più aperta e solidale) si poteva semmai rimproverare qualche eccesso di sdolcinatezza nella parte finale. Ecco, tutto questo in Matar a Dios di sicuro non accade. E in ciò il lungometraggio iberico può ricordare ancor più da vicino quel lisergico episodio di The Acid House, il film diretto nel 1998 da Paul McGuigan sulla scia dei racconti di Irvine Welsh, in cui un Dio irascibile e politicamente scorrettissimo si divertiva a punire severamente un poveraccio qualsiasi, dopo averlo umiliato in un pub.

Già Premio del Pubblico alla 50a edizione del Festival di Sitges, il film di Caye Casas e Albert Pintó ha difatti rappresentato una delle visioni più sapide di questo 37° Fantafestival.
Gli stessi presupposti del plot sono tanto originali e sulfurei, da creare all’istante l’atmosfera giusta: dopo che nella sequenza iniziale ci si è potuti confrontare con l’apparizione di un inquietante vagabondo, dotato di misteriosi poteri e di una sinistra preveggenza, l’attenzione si sposta all’improvviso sulle grottesche vicende di uno scombinato nucleo famigliare, descritto così impietosamente da far pensare, alla stregua di tante altre cose introdotte nella picaresca e dissacrante narrazione, al cinema virtuosisticamente sopra le righe di Álex De la Iglesia. Una coppia in crisi sta preparando il cenone di Capodanno in una casetta isolata, dall’arredamento decisamente kitsch, affittata per l’occasione. Lui, bruttarello e volgare, sta avendo una violenta crisi di gelosia, nei confronti della moglie grassoccia, resa oggetto di frecciatine continue. Poi arrivano gli ospiti. Ovvero il fratello di lui, vittima di una profonda sindrome maniaco-depressiva da quando la moglie è scappata con un aitante argentino di colore. Ed assieme a lui l’anziano padre, che dopo la morte della compagna di una vita pare deciso a fare baldoria a tutti i costi, nonostante la salute sembrerebbe consigliargli maggior cautela, a riguardo. Ne consegue una pittoresca baraonda: malumori maschili dettati dalla gelosia, corna confessate all’improvviso, esasperazione femminile contenuta a fatica, diatribe famigliari d’ogni tipo, litigi a tavola. Il bestiario comportamentale è ampio. Ma alcuni rumori sospetti dal bagno atterriscono la compagnia interrompendo per un attimo la caciara. Chi si è introdotto in casa loro di notte? Ad uscire con aria sfacciata dal bagno è proprio quel clochard visto nel prologo, un nano vagabondo dallo sguardo cattivo e pungente che saprà mettere subito tutti in riga. Non sarà neanche così difficile riuscirci, visto che lo strano ospite si presenterà agli altri dichiarando di essere Dio e facendo anche qualcosa di molto simile ad un miracolo…
In Matar a Dios la faccenda diventa sempre più paradossale, allorché il sedicente Dio rivela ai protagonisti che per puro capriccio intende dar via all’alba a una silenziosa Apocalisse, destinata a sterminare l’intera umanità tranne un paio di elementi che verranno selezionati tra i presenti. E saranno proprio loro, quindi, a dover scegliere “i sommersi e i salvati”, ossia i due che resteranno vivi e i due che periranno assieme al resto del genere umano!

Tra dettagli grotteschi, cinici dialoghi sul senso della vita, suggestioni nietzschiane (la “morte di Dio” intesa… in senso letterale e anche piuttosto farsesco?) e altre conseguenze di un facilmente preventivabile gioco al massacro, di matrice psicologica, tra i quattro malconci personaggi (tutti affidati a interpreti strepitosi e decisamente in parte) cui è stata proposta la salvezza, il plot gioca su quei temi irriverenti che il cinema spagnolo (soprattutto quello di genere) è abituato da tempo ad affrontare. E il compito viene svolto parecchio bene, tra lampi di fosca ilarità e acute riflessioni misantropiche. Con un interrogativo altrettanto caustico pronto a delinearsi sullo sfondo: se l’Apocalisse avrà luogo realmente, saranno solo gli scarafaggi a salvarsi, come si dice che avvenga durante le esplosioni nucleari? Alla famiglia dei Blattoidei l’ardua sentenza.

Stefano Coccia

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