Quel che la musica può fare
Inserire le dolci melodie fuoriuscite da quell’amabile strumento musicale che è il violino, in una scuola francese a dir poco difficile all’interno di una delle tante banlieue parigine in condizioni esistenziali precarie potrebbe sembrare un giochino tanto scaltro quanto edificante. Ed in effetti, vedendo questo La mélodie – opera seconda da regista dell’attore Rachid Hami – qualche sospetto verrebbe anche. L’utilizzo degli stereotipi è infatti quanto mai evidente: valente musicista ferito dalla vita accetta l’incarico d’insegnare violino in una classe di ragazzini, immigrati di seconda generazione, all’apparenza insensibili al fascino delle note. Seguono momenti di difficoltà, con l’insegnante Simon Daoud (il commediante Kad Merad, stavolta in versione efficacemente sobria) più volte sul punto di mollare la presa ma convinto dalla passione di un allievo a continuare nella propria opera educativa, ancor prima che di maestro musicale. E il punto, alla fine, è proprio questo: La mélodie riesce a farsi benvolere, aggirando la patina di furbizia precostituita che lo avvolge, sventolando a mo’ di bandiera l’argomentazione pedagogica sull’importanza del fare esperienza, attraverso la conoscenza di sé e degli altri, come requisito primario di crescita. Quando la regia di Hami e il terzetto di sceneggiatori – Guy Laurent, Valérie Zenatti e lo stesso regista – focalizza l’attenzione narrativa sui rapporti tra Doud e i ragazzi, e in generale con l’ambiente circostante, La mélodie acquisisce nuove, preziose, strade di significato sul senso ultimo della parola comunità, nel significato più completo da attribuire al termine. Mentre d’altro canto, ispirandosi palesemente a modelli alti come il meraviglioso La classe (2008) di Laurent Cantet oppure in generale al verismo poetico del cinema di Abdellatif Kechiche – del resto lo stesso Rachid Hami è stato, non a caso, tra gli al tempo giovani interpreti de La schivata (2003), opera seconda del grande autore di origine magrebina – il film non riesce a dissimulare, nel confronto con gli illustri esempi appena citati, quel processo di costruzione narrativa che lo rende a tutti gli effetti una più o meno smaliziata opera di fiction.
Nonostante tali, affatto trascurabili, distinguo, La mélodie resta opera non priva di momenti emozionanti e riusciti, come quello in cui a Doud, recatosi dalla famiglia dell’allievo ribelle per scusarsi di averlo spintonato dopo essere stato da lui insultato, viene chiesto di suonare il violino a simbolizzare un momento di possibile armonia tra ambienti sociali profondamente differenti nel nome dell’universalità dell’Arte. Un messaggio d’ottimismo per nulla trascurabile, a maggior ragione nella grigia contemporaneità che stiamo attraversando, che fa superare di slancio le plausibile riserve su di un’operazione, come detto, sin troppo studiata a tavolino per convincere fino in fondo. E tuttavia, da una visione associata genitori/figli a qualsiasi latitudine geografica, potrebbe scaturire una lungimirante discussione sull’importanza di lasciare ad ogni individuo, anche e soprattutto in età adolescenziale, la libertà di scelta sull’eventuale cammino da percorrere in futuro.
Daniele De Angelis