Ipocrisia, tradimento e barbarie
A nordovest della Russia si trova la foresta di Katyn, sotto la quale giacciono più di 4.000 ufficiali militari polacchi massacrati nel 1940 dai servizi segreti sovietici. Insieme a quelli dei polacchi ci sono molti altri resti umani: quelli dei civili sovietici giustiziati allo stesso modo qualche anno prima. Il massacro di Katyn – già raccontato da Andrzej Wajda nel film Katyn del 2007 – è solo un briciolo di verità, una piccola parte dei vertiginosi crimini perpetrati in tutta l’URSS per decenni dai carnefici di Stalin.
Segnalatoci qualche giorno fa dall’Istituto Polacco di Roma, verso il quale la nostra gratitudine puntualmente si rinnova, il documentario Katyn, 1940: i carnefici di Stalin risulta introdotto con tali parole su arte.tv, che ne ha reso gratuita la fruizione per un paio di mesi, periodo che scadrà a breve: il 24 aprile. Da un lato siamo consapevoli del fatto che in un clima già plumbeo e mortifero, come quello della pandemia mondiale che stiamo ad oggi attraversando, immergersi nella contemplazione degli orrendi trascorsi dello stalinismo non è certo una passeggiata, a livello emotivo. Ma chiunque abbia a cuore i più accurati approfondimenti storici e la pluridecennale, sofferta lotta per ripristinare giustizia e verità scomode, di fronte agli ipocriti tentativi di insabbiamento portati avanti a più riprese dal truce totalitarismo bolscevico, non potrà che appassionarsi a questa meticolosa ricerca documentaria firmata dal cineasta transalpino Cédric Tourbe.
Solenne e di impostazione “classica”, rispettoso del susseguirsi degli eventi ma carico di fervore al momento di rievocare i più abietti crimini di matrice sovietica, il documentario del regista francese è a nostro avviso una delle migliori testimonianze cinematografiche di quella immane tragedia collettiva, passata alla Storia come Massacro di Katyn. Lo è assieme al vibrante lungometraggio di finzione ricordato poc’anzi, Katyn, che un grande Maestro del cinema come Wajda girò per commemorare un dramma non soltanto nazionale, ma anche famigliare, privato: in quelle orribili fosse comuni vennero infatti ritrovati pure i resti del padre, ufficiale di cavalleria fatto prigioniero e poi barbaramente assassinato dai sovietici, come tanti commilitoni e persino qualche civile, agli inizi della Seconda Guerra Mondiale. Avvilenti “effetti collaterali”, questi, della vergognosa e cruenta spartizione della Polonia concordata da Hitler e Stalin.
Affine tematicamente e per immagini a quei “libri neri del comunismo”, che ci hanno fatto conoscere più dettagliatamente l’immane carico di orrori e i più sinistri episodi con cui un cieco fanatismo ideologico rese irrespirabile l’aria della Russia sovietica, della Cina maoista, della Cambogia di Pol Pot o del claustrofobico regime nordcoreano, solo per fare gli esempi più eclatanti, Katyn, 1940: i carnefici di Stalin ha inoltre il merito di affrontare la genealogia di tale crimine affrescando un background storico decisamente più ampio: dagli eccessi di Dzerzhinsky e dei “cekisti” nel periodo immediatamente post-rivoluzionario all’eliminazione dei “vecchi bolscevichi” dopo la morte di Lenin, dalla violenta ascesa dello stesso Stalin a quel genocidio noto come Holodomor pianificato dal suo entourage in Ucraina, dal sadismo di Ežov il “nano feroce” all’emergere tra i quadri dell’NKVD del non meno spietato Lavrentij Berija, ciò che ne deriva è un quadro desolante, disumano, persino spiazzante per la dovizia di particolari con cui vengono illustrate quelle robotiche pratiche di sterminio, molto spesso coperte e mistificate attraverso astute menzogne di stato. Come avvenne con una ipocrisia senza limiti anche per Katyn, già durante il periodo bellico.
Stefano Coccia