I giorni dell’abbandono
Kamper è sulla trentina, ha una bella moglie di cui è innamorato, un grande appartamento, un’auto lussuosa e il lavoro dei sogni. Ma quando scopre che la moglie lo tradisce, nulla lo interessa più, nemmeno il suo ruolo di responsabile nello sviluppo di un videogioco e la sua reazione passionale si dimostra essere tutt’altro che saggia. Cercando di capire dove ha sbagliato e come rimediare, Kamper si rende conto che ha due possibilità: crescere e lasciarsi tutto alle spalle o ricominciare tutto daccapo da solo.
Già nelle righe della sinossi che accompagnano l’opera prima di Łukasz Grzegorzek, da noi vista e recensita nel corso della terza edizione delle Giornate del Cinema Europeo Contemporaneo, si possono rintracciare chiaramente le due linee drammaturgiche dominanti dello script. Nelle vene di Kamper, infatti, scorrono parallelamente, per poi intrecciarsi, le linee guida del romanzo di formazione in età avanzata e quelle del dramedy sentimentale. Linee, queste, che consegnano allo spettatore di turno un plot che non ha di certo nell’originalità del racconto e del disegno dei personaggi che lo animano i propri punte di forza, poiché il tutto è nato sin dalla fase di scrittura per calcare la mano su altro. Di fatto, l’originalità lascia ampio spazioall’approfondimento delle dinamiche tra il protagonista e il microcosmo umano che lo circonda. Ne viene fuori una storia che mette al centro l’uomo e le sue relazioni all’interno della sfera affettiva, sentimentale, lavorativa e amicale. Un intreccio che costringe l’ennesimo eterno Peter Pan a crescere, a fare i conti con le responsabilità e a decidere il percorso da intraprendere dopo l’improvviso giro di boa. Intreccio che, a sua volta, in un secolo e passa di Storia della Settima Arte ha già trovato innumerevoli sviluppi sul grande schermo a tutte le latitudini.
Presentato in anteprima mondiale nella sezione East of the West del Karlovy Vary International Film Festival 2016 e vincitore nello stesso anno del premio opera prima al Raindance Film Festival, il film del giovane e promettente cineasta polacco è di fatto uno spaccato di un’esistenza in mutamento, che spinge il fruitore a osservare come gli inevitabili cambiamenti influiscono sul futuro percorso di colui che li vive. In tal senso, Kamper è lo specchio in cui il pubblico, in particolare quello maschile, può ritrovarsi, perché nella sua one line c’è l’universalità di certi atteggiamenti, approcci e modus operandi. Ed è sull’empatia e la catarsi nei confronti del protagonista che il fruitore deve trovare partecipazione, motivi d’interesse e anche qualche spunto di riflessione. E la passionale e viscerale interpretazione di Piotr Zurawski nei panni del protagonista permette al film di navigare a vista sopra la linea di galleggiamento, con Grzegorzek che fa di tutto con la macchina da presa per valorizzarla.
Francesco Del Grosso