Un mondo “post”
Il virus era già da tempo tra noi, senza che ce ne accorgessimo. Forse con il famigerato covid19 ha semplicemente assunto altre sembianze. Questo racconta il pregevole cortometraggio indipendente Kami No Virusu (attenzione al titolo di radice linguistica giapponese) di Luciano Attinà, rappresentando anche dal punto di vista formale un mondo disumanizzato dall’aspetto decisamente anonimo, universale e post-apocalittico.
Una pandemia ha cambiato per sempre qualsiasi forma di equilibrio sociale. Ogni cosa ha un costo, perlopiù inarrivabile per buona parte della popolazione. Alle fasce meno abbienti, definiamole così, una fantomatica multinazionale farmaceutica, la Stoker, si propone di offrire gratuitamente un vaccino sperimentale, in cambio del monopolio su una fornitura a livello globale dal governo. Ma il siero avrà degli effetti collaterali assolutamente imprevisti.
Prendendo apparentemente spunto dalle varie teorie complottiste che imperversano ormai da anni a questa parte scaturite dalla reale pandemia, Kami No Virusu si concentra saggiamente su un differente aspetto, quello della “perfetta” coincidenza tra innaturali calamità assortite – inseriamo nel folto contesto anche, a mero titolo di altro esempio, il conflitto ucraino in corso – ed interessi economici. L’autentico virus, tornando al discorso introduttivo, è proprio il capitalismo più folle e distruttivo, quella insaziabile fame di ricchezza che non prevede ostacoli sul proprio cammino né tantomeno scrupoli di sorta. Diretta conseguenza di tale deriva può essere solamente una mutazione irreversibile dell’essere umano, che si paleserà fisicamente nel finale del corto in questione ma che era già in atto, dal punto di vista interiore, ben prima, in coloro che detengono le cosiddette leve del potere.
Luciano Attinà – anche autore del soggetto e della sceneggiatura, nonché montatore del corto – mescola con competenza cinema di genere, la frammentarietà formale del cinema underground e avanguardistico e soprattutto prende il cyberpunk di estrazione nipponica come principale modello di riferimento. Opere di culto quali Tetsuo (1989) di Shin’ya Tsukamoto – dove il cosiddetto progresso tecnologico finiva per fagocitare la natura primaria dell’uomo, operando in lui una metamorfosi non più controllabile – fungono non solo da fonte ispiratrice, ma vengono rielaborate con intelligenza alla luce dei mutamenti socio-politici attuali. Finendo con il rappresentare in modo esemplare il caos di un futuro che appare sempre più simile ad un presente nemmeno troppo distopico, tanto compromesso da far sembrare impresa impossibile persino mettersi alla ricerca di un qualsiasi rimedio.
Chissà se solo la regressione ad uno stato primitivo ed animalesco (efficacemente simbolizzato dal vampirismo dell’epilogo del corto), inevitabile rivolta ad uno status quo ormai intollerabile, potrà paradossalmente essere l’unica possibilità rimasta alla sopravvivenza dell’intera umanità.
Per un inquietante cortometraggio intriso, più che di visionario pessimismo, di pragmatico realismo. Per nostra sventura.
Daniele De Angelis