Non esistono posti sicuri
Correva l’anno 1993 quando Steven Spielberg lasciava tutti a bocca aperta con Jurassic Park, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del compianto Michael Crichton. All’epoca il coefficiente di difficoltà legato al progetto era altissimo, a causa degli standard elevati richiesti per dare forma e sostanza alle creature preistoriche e ai restanti VFX. Ciononostante il cineasta statunitense riuscì a portare sul grande schermo un’opera indimenticabile, entrata a gamba tesa nella storia della Settima Arte e nell’immaginario delle platee di ieri e di oggi. Proprio il successo planetario ottenuto da quel film non poteva che innescare negli aventi diritto il desiderio irrefrenabile di dare un seguito, con tutti i benefici economici ad esso derivanti. E così è stato, con Jurassic Park che ha gettato le basi per la costruzione di un franchise che ad oggi conta due romanzi, una saga videoludica, una miniserie a fumetti, un parco a tema e ben cinque lungometraggi, ultimo dei quali Jurassic World – Il regno distrutto, nelle sale nostrane da 7 giugno con Universal Pictures International Italy.
Come spesso accade le saghe come queste raramente riescono a mantenere pressoché inalterato o persino a migliorare il livello, al contrario con lo scorrere dei capitoli si assiste a una fisiologica e graduale depotenzializzazione della matrice nativa. Nella saga in questione, il processo ha iniziato a manifestarsi a partire dal terzo episodio, con il passaggio del testimone dietro la macchina da presa da Spielberg a Joe Johnston, ma anche con l’assenza di Crichton nella fase scrittura. Due assenze che si faranno sentire e non poco, tanto da pesare come un macigno nei due sequel successivi, affidati rispettivamente a Colin Trevorrow (Jurassic World) e Juan Antonio Bayona (Jurassic World – Il regno distrutto).
Da parte sua, il regista catalano, fattosi notare per le precedenti esperienze sulla lunga distanza come The Orphanage, The Impossible e Sette minuti dopo la mezzanotte, fa quello che può per mantenere a galla il progetto, ma l’eredità non all’altezza della situazione lasciata da Trevorrow con il quarto capitolo, che ha segnato l’inizio della seconda fase della saga inaugurata da sua maestà Steven Spielberg venticinque anni fa, non gli ha permesso di uscirne a testa alta. Per quanto riguarda la storia, la pellicola diretta da Bayona si riallaccia ai fatti raccontati dal collega statunitense in Jurassic World, con qualche rimando ai personaggi e alle vicende che hanno animato i primi tre capitoli. Per la precisione sono passati più o meno tre anni da quando il parco a tema Jurassic World, il sogno di John Hammond, è di nuovo andato in frantumi distrutto dai dinosauri scappati dalle gabbie. Il progetto di mettere le creature preistoriche in gabbia e trasformarle in attrazioni per famiglie ha funzionato finché lo spaventoso ibrido Indominus Rex non è evaso dal recinto, seminando il panico su Isla Nublar, che ora è abbandonata dagli esseri umani, mentre i dinosauri sopravvissuti abitano nella giungla. Ma Quando il vulcano dormiente dell’isola si risveglia, l’ex addestratore di velociraptor Owen Grady e la vecchia responsabile del parco Claire Dearing decidono di tornare in azione per salvare i dinosauri sopravvissuti da una catastrofe che li porterebbe a una nuova estinzione.
Purtroppo, le indubbie qualità tecniche e di narratore presenti nel portfolio di Bayona non sono state sufficienti a salvare il salvabile, con qualche scena d’azione di ottima fattura e grande impatto visivo, come la spettacolare fuga dall’isola durante l’eruzione del vulcano, che non bastano a ripagare il prezzo del biglietto. Il regista ha preso in consegna uno script che non fa altro che replicare per l’ennesima volta una linea narrativa e drammaturgica già proposta nei primi episodi, con personaggi annessi che sembrano fotocopie sbiadite dei loro predecessori, dei quali dopo avere visto Jurassic World – Il regno distrutto sentiamo ancora più la mancanza. In tal senso, nemmeno l’apparizione sullo schermo di Jeff Goldblum nei panni di Ian Malcolm riesce ad attenuarla. E tenendo presente che ci troviamo al cospetto del secondo atto di un rilancio della saga, tale ripetitività nel modus operandi ci appare un limite troppo grande di fronte al quale è impossibile chiudere gli occhi. Come impossibile è non accorgersi che nell’operazione si materializzano gli stessi identici punti deboli di Jurassic World, anch’esso a suo modo regno gelido dove governa la computer graphic, dialoghi a “voce grossa” (improbabili, a dire il vero) e combattimenti tra dinosauri in cui non può mancare il tirannosauro rex a denominazione di origine controllata.
Ora per capire se per la saga c’è qualche speranza di ritornare ai fasti di un tempo, anche se nutriamo forti dubbi in merito, dovremo aspettare il 2021, anno in cui è prevista l’uscita di sesto episodio, che come annunciato vedrà nuovamente Colin Trevorrow al timone. Non ci resta che attendere fiduciosi.
Francesco Del Grosso