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Jersey Boys

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VOTO: 8

I migliori anni

Se la vita è foriera di continui dubbi, è il caso di tenerci strette le poche certezze che ci sono rimaste. E Clint Eastwood, per gli appassionati di cinema, assoluta certezza lo è ormai da tempo.
Eppure qualche domanda, prima dell’uscita di Jersey Boys, era serpeggiata. Cosa poteva avere in comune l’Eastwood autore cinematografico con una sorta di biopic incentrato su un quartetto di successo, nell’ambito del rock leggero, negli anni cinquanta? Poco o nulla, sulla carta. Anche perché è ben nota la passione dell’autore di Gran Torino per tutt’altro genere di musica. Invece, al termine della visione, la spiegazione si fa, quasi miracolosamente, nitida. Perché Jersey Boys altro non è che un’opera sul cosiddetto American Dream, quell’analisi del sogno americano che da sempre appassiona illustri cineasti statunitensi, non ultimo lo stesso Eastwood. Cosa altro sono, se non profonde vivisezioni delle speranze e delle opportunità che alberga(va)no in un’intera nazione, pellicole quali Honkytonk Man (1982), Un mondo perfetto (1993) o Space Cowboys (2000)? Jersey Boys non può essere altro che l’ennesima variazione sul tema, comunque in grado di raccontare la parabola dei Four Seasons – questo il nome del gruppo musicale protagonista del film – da una prospettiva così originale da diventare pressoché nuova.
Appoggiandosi ad una buona sceneggiatura firmata da Marshall Brickman – storico collaboratore di Woody Allen – e Rick Elice, a propria volta tratta da un popolare (negli States) spettacolo teatrale, l’innovazione apportata da Eastwood non risiede tanto nella trovata registica, comunque efficace, di abbattere la classica “quarta parete” che divide un’opera cinematografica dal proprio pubblico, con i quattro personaggi ad interloquire direttamente verso la macchina presa allo scopo di coinvolgere in misura ancora maggiore lo spettatore nelle vicende esistenziali dei protagonisti. Quanto invece nello sposare, con sopraffina abilità, i ritmi ora lenti ora frenetici della vita stessa, dalle tenere gaffe adolescenziali fino alla vertiginosa scalata verso il successo e all’inevitabile declino, dettato proprio dall’inesorabilità del tempo che fugge via. E la riflessione profonda che Jersey Boys prova, con successo, a condividere con chi guarda il film da non troppo lontano consiste appunto nell’esplicitare il rapporto causa/effetto che intercorre tra lo scorrere degli anni e le dinamiche che coinvolgono vari personaggi: rapporti personali che si incancreniscono, ruoli paterni sacrificati sull’altare del successo, punti di vista che si alternano nell’impossibilità di stabilire una verità certa ed assoluta. Poiché in Jersey Boys, la realtà confina strettamente con la Storia e quest’ultima con la Leggenda, frammentando il tutto in mille e più schegge differenti. Raccolte e ricomposte, da Clint Eastwood, in un’opera dai toni sempre velati da una bellissima forma di compassione nutrita verso ogni personaggio di un film che, partendo appunto come un biopic su un celebre quartetto rock anni cinquanta, diviene gradatamente una specie di partitura jazz – come in fondo Clint deve aver avuto da subito in mente – colma di improvvisazioni e “incidenti” di percorso, esattamente come la vita di ognuno di noi.
E con un’ultima sequenza in stile musical a ricordarci che il Cinema – quello con la maiuscola – è sempre sperimentazione, capacità di rinnovarsi e mettersi alla prova. Nel caso di Jersey Boys poggiando il film sulle (solidissime) spalle di quattro attori giovani e semisconosciuti, con i quali identificarsi diviene un processo quasi spontaneo. Ma soprattutto ricordandoci che la vita, nonostante le gioie e le soddisfazioni – come può testimoniare, nel film, chi l’ebbrezza del successo l’ha raggiunta davvero, come Frankie Valli e i Four Seasons – siano e saranno sempre in minoranza rispetto ai dolori ed alle amarezze, vale sempre la pena essere vissuta, possibilmente cercando di tirare fuori il meglio che si ha dentro.
Parole e musica – è proprio il caso di scriverlo – da parte di un ultraottantenne dal cuore mai così giovane, di nome Clint Eastwood.

Daniele De Angelis

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