Appartengo solo a me stesso
Son come falchi quei carri appostati,
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.
Quando la piazza fermò la sua vita,
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,
quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano,
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all’orizzonte del cielo di Praga
Francesco Guccini, “Primavera di Praga”
L’estremo sacrificio di Jan Palach, un gesto di raro coraggio. Il cantautore Adamo, nella splendida Mourir dans tes bras, lo avrebbe poi ricordato con versi che, tradotti in italiano, fanno più o meno così: “C’è chi muore in primavera come un lampo, come una torcia, sbarrando la strada per un istante ai carri armati”. Curioso. Eppure, di una figura straordinaria come quella del giovane ribelle boemo le prime testimonianze artistiche che riaffiorano alla memoria sono tutte, per quanto ci riguarda, di natura musicale; ed anche estremamente composite, in quanto ad orientamento ideologico: si passa infatti dalla Compagnia dell’Anello a Francesco Guccini, nel cui brano dedicato alla Primavera di Praga risalta l’accostamento tra la morte del ragazzo e un altro celebre rogo, quello del riformatore religioso Jan Hus. Insomma, il cantautorato di casa nostra si è dato da fare sull’argomento. Ma il cinema? Stranamente, vista la penuria di titoli, sembrerebbe che fino ad ora abbia avuto qualche remora ad affrontare una vicenda tanto emblematica. Come a riempire un vuoto increscioso, si è ora palesato l’intensissimo, ammirevole biopic firmato dal cineasta ceco Robert Sedláček.
Piombato sulla 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma come una bomba Molotov, vista anche la natura incendiaria del tragico episodio narrato, Jan Palach è biografia cinematografica straordinariamente vivida, coinvolgente, che non solo restituisce un’immagine a tutto tondo del protagonista, ma riesce anche a far emergere le dinamiche sociali, politiche e culturali della cosiddetta “Primavera di Praga” con apprezzabile immediatezza, senza sacrificarne la complessità. L’interprete principale Michael Balcar, dotato di una vaga rassomiglianza col nostro Elio Germano, è a sua volta encomiabile nel dosare i toni, nel dare vita a un personaggio sfaccettato, credibile, che non nasconde affatto le sue debolezze ma che al momento opportuno sa mettere in gioco tutto se stesso per quello in cui crede. Lo Jan Palach portato sullo schermo da Robert Sedláček non è quindi un monocorde santino. Al contrario il film, oltre a mantenere le distanze da qualsiasi retorica, alterna una valida ricostruzione degli eventi a quei lampi di ironia praghese che alla narrazione assicurano brio, anche quando la brutale repressione sovietica fa calare una cappa oscura su ambienti, come quello universitario, fino ad allora in pieno fermento. Ci si avvicina così, in un continuo saliscendi emotivo caratterizzato anche da onestissimi richiami allo spirito di protesta che aveva contagiato, nel frattempo, differenti aree del globo, verso la cronaca delle ultime ore di vita di Jan: nel pomeriggio del 16 gennaio 1969 lo studente si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga, fermandosi ai piedi della scalinata del Museo Nazionale per poi cospargersi il corpo di benzina e darsi fuoco con un accendino. L’agonia sarebbe durata tre giorni. L’ultima inquadratura del film ci mostra il volto sfigurato e tremebondo del giovane eroe: uomo mite e riflessivo fino ad allora, spinto però a una scelta estrema dall’impossibilità di contrastare diversamente il venir meno della libertà. Perché lui, come rimarcato in alcuni punti chiave dell’intenso racconto cinematografico, non è mai appartenuto a nessuno.
Stefano Coccia