Poco amabili resti
In concorso al Ravenna Nightmare 2023, It Remains ha rappresentato una piacevolissima sorpresa, sia per gli amanti del genere che per coloro ai quali il grande cinema di Hong Kong trasmette ancora oggi un filino di nostalgia e determinate aspettative.
In più Kelvin Shum è cineasta giovane. Originario per l’appunto di Hong Kong e cresciuto poi a Melbourne, Australia, si è messo in luce all’interno della new wave hongkonghese attraverso cortometraggi di successo, come We Shall Overcome (2019), approdando successivamente al lungo con ben due lavori realizzati in un arco temporale piuttosto breve: prima il thriller Deliverance (2022), con protagonista il leggendario Simon Yam, ed ora l’horror It Remains.
Intriso di credenze orientali la cui matrice buddista è presente sin dalle didascalie iniziali, It Remains fa convogliare gli elementi soprannaturali nella complessa, dolorosissima elaborazione del lutto, cui andranno incontro Finn e i suoi amici. Finn ha da poco perso la sua ragazza in un terrificante incidente stradale. Le modalità del tragico tale evento gli hanno lasciato dentro parecchia angoscia e un incipiente, devastante senso di colpa. Anche per aiutarlo a superare un simile trauma, tre suoi amici nonché colleghi di lavoro presso un ristorante alla moda di Hong Kong lo hanno voluto accompagnare, per una vacanza di pochi giorni, sull’isolotto un po’ selvaggio che uno di loro ha scovato su internet. Dalle immagini trovate in rete il posto poteva apparire un’oasi di pace non troppo distante dalla “civiltà”, una realtà a misura d’uomo ancorata per giunta a festose tradizioni locali. Si rivelerà invece un luogo pressoché deserto e abbandonato da tutti dopo non si sa bene quale evento luttuoso.
Soltanto un anziano burbero e dai modi inquietanti vive sull’isola. E proverà subito a mettere in guardia i ragazzi dal pernottare nelle case rimaste vuote di quel “villaggio fantasma”, ma loro sono comunque costretti ad aspettare qualche giorno, prima che il successivo traghetto passi da lì. Situazione infausta. Perché sin dalla prima notte i quattro amici dovranno confrontarsi con spettrali presenze e con il rimosso delle loro esistenze. Fino a essere completamente risucchiati dai terribili segreti dell’isola…
Siamo insomma nell’alveo di quella prolifica ghost story in “salsa orientale” che, salendo dall’Indocina fino alla penisola coreana, pare nutrirsi di folklore locale, culto dei defunti, karma e spiriti maligni. Kelvin Shum si è dimostrato non soltanto abile ma anche parecchio ispirato, nel rimaneggiare tale sostrato conferendogli comunque un’impronta alquanto personale, matura. Sia sul piano filosofico che a livello puramente formale.
Sin dalle esperienze allucinatorie del protagonista all’interno del ristorante, prima cioè del loro sbarco sull’isola misteriosa, l’autore opta per uno sfasamento progressivo in cui le coordinate del reale appaiono visibilmente deformate, sfasamento accentuato peraltro da quel montaggio straniante, rapsodico, che altera la dimensione spazio-temporale stabilendo un contatto più diretto con l’aldilà.
Nel villaggio abbandonato tale processo conoscerà poi un’accelerazione parossistica, coinvolgendo anche i compagni di Finn. L’atmosfera peculiare del luogo li spingerà tutti a cercare una riconciliazione coi propri defunti, in particolare quelli scomparsi in circostanze drammatiche, andando però incontro ai rischi che ci si può immaginare.
Persino più struggente è il mood che va a delinearsi intorno al triste destino dei nativi dell’isola. Filosoficamente fondato è perciò il senso che Kelvin Shum ha saputo conferire al racconto, sebbene sia soprattutto sul piano prettamente visivo, estetico, che It Remains riesce ad ammaliare lo spettatore, assicurando una forma e un colore sempre diversi alle relazioni, sovente morbose, che ciascun protagonista stabilisce col mondo soprannaturale. Oltre alla dimensione del rito, ben presente nelle terribili scelte compiute anni prima dall’anziano del villaggio, fortemente iconica (come in tanto cinema honkonghese, da Stephen Chow a Herman Yau) è la rappresentazione del cibo, del così significativo atto di bere e mangiare. Anche questo un canale, un tramite. E così, dall’impronta estetizzante che assumono nel prologo le immagini delle raffinate portate servite nel ristorante, passando per la carne ormai marcia consumata nervosamente da uno dei protagonisti nel villaggio maledetto, per approdare infine al flashback della strage attuata avvelenando le giare contenenti il vino di riso, tale leitmotiv si sviluppa con una certa pregnanza semantica e un ancor più notevole impatto visivo, per tutta la durata del lungometraggio. Una delle molteplici forme, insomma, che assume qui in veste smaccatamente orrorifica l’accidentato dialogo tra la materia e lo spirito.
Stefano Coccia