Le parole della regista sul coraggioso film da lei realizzato a Udine
La difficoltà di portare avanti produzioni cinematografiche indipendenti. L’immagine di Udine sul grande schermo. Il perché nel film sia stato adottato un linguaggio così sperimentale, anche a livello di montaggio. L’importanza della musica. Si è parlato di questo e di molto altro ancora, nel corso dell’intervista da noi realizzata grazie alla disponibilità di Elisabetta Minen, talentuosa cineasta friulana il cui lungometraggio d’esordio Three the Movie ci aveva molto colpito.
D: La regia di Three the Movie, film che ci ha molto suggestionato anche per il modo in cui vi si confrontano culture diverse, porta la tua firma, Elisabetta, assieme a quella di Yassine Marco Marroccu. Come è nata la vostra collaborazione?
Elisabetta Minen: La collaborazione con Marroccu ebbe inizio solo alcuni mesi prima di girare. Lo conobbi una sera, a Udine, in cui veniva proiettato, in un grande evento di piazza, un suo videoclip musicale (Dear Mama di Oum et barry). Pensai che questo regista italo-marocchino avrebbe potuto affiancarmi nella direzione del film che avevo scritto e che con Artemedia, la mia casa di produzione, intendevo produrre. Allora portava il titolo trilingue “Trê – Sé – Shalosh”, “Tre” nelle lingue dei tre protagonisti, friulana, farsi ed ebraica.
E Yassine è stata la scelta giusta: è mediatore culturale essenziale con la comunità musulmana, senza il quale non avrei potuto girare le scene nella “Casbah”, il quartiere di via Roma e di via Battistig. A lui anche il merito di avermi messo in contatto con la Videe di Pordenone e con Bruno Mercuri, che, appassionatosi al progetto, ha voluto sostenerlo fornendoci gratuitamente telecamere, attrezzature e alcune preziose figure professionali per girare il film. Infine, ma non ultimo di importanza, mi ha permesso di conoscere Ronald Kosturi, drammaturgo di talento (purtroppo prematuramente scomparso e a cui ho dedicato il film), preziosissimo supervisore artistico, fondamentale nella revisione della sceneggiatura e sul set.
Con Yassine c’era un preciso accordo secondo cui avremmo co-diretto sul set, ma non sarebbe intervenuto al montaggio, che ho affrontato da sola. E così è stato.
D: Sempre riguardo alla genesi del film, cosa vi ha portato ad adottare uno stile così libero, di sicuro poco convenzionale dal punto di vista narrativo, adattandolo a temi di inusitato spessore etico e filosofico, con un’impronta metafisica altrettanto particolare a fare da sfondo?
Elisabetta Minen: Volevo realizzare un film che andasse oltre al genere e che fosse vero. Come la vita. E’ così che partendo da temi sociali e umani, culture materiali e spirituali differenti, ho voluto compiere un volo pindarico tra psicologia e filosofia, volteggiando su piani onirici e metafisici che sono stati il vero pretesto di questa storia.
Quanto allo stile, con il montaggio, ancor più rispetto alla sceneggiatura, ho colto l’opportunità di sperimentare. Volevo rendere visibili le sensazioni espresse da alcune battute (“Passato e futuro, un eterno presente!”), il tema del déjà vu, e il riferimento all’anello di Moebius per esempio, senza ricorrere a quei cliché come il bianco e nero o l’effetto flou che si utilizzano per far vedere un ricordo (mica ricordiamo in bianco e nero!). Far rivedere poi, la stessa scena, da inquadrature differenti, mi ha permesso di rendere i differenti punti di vista dei personaggi sulla stessa situazione, sia nella sincronicità ricordo, come Irene e Pavel, anche legati nel momento, in una sorta di telepatia, che nella asincronicità, dove la ricorsività di un pensiero esalta la circolarità della storia, il déjà vu e lo sviluppo come nell’otto rovesciato del segno dell’infinito o come nell’anello di Moebius.
Tali soluzioni rimediano anche a degli errori di continuità commessi in fase di ripresa, ma porvi rimedio al montaggio, mi ha permesso di sperimentare soluzioni registiche del tutto inusuali.
E’ vero che un montaggio così libero chiede un’attenzione maggiore (e sono d’accordo che questo film non sia per un pubblico distratto) ma già da tempo internet ci ha abituati a saltare da un’informazione all’altra. Consiglio di guardare il film con occhi aperti e cuore aperto, facendo attenzione ai dettagli e agli oggetti di scena, che aiutano a capire la linearità della storia (come per esempio un libro marrone e un libro giallo che si alternano in mano a Irene). Ma se comunque accadesse di perdersi, basta lasciarsi trasportare delle emozioni e seguire il flusso. Poi tutto torna.
D: Cosa ha significato per te girare il film in Friuli? E che ritratto di Udine pensi che emerga dal vostro lavoro?
Elisabetta Minen: Udine è al centro di racconto. Questo film è stato scritto per questa città (prima regola per uno scrittore o uno sceneggiatore: scrivere una storia del proprio ambiente). Ho scritto una storia della mia città, che amo e che odio, e di cui, credo, si percepiscano tutte le contraddizioni.
Far conoscere Udine al pubblico del cinema, questa la mia scommessa. Ovunque, nei vari festival in giro per il mondo dove è stato proiettato, Udine ha incantato fornendo una immagine diversa dell’Italia (non Roma, non Firenze, non Venezia). Una città ricca di fascino. Algida, immobile e placida, ma di cui si percepisce una storia importante.
D: Nel cast ci sono interpreti come Chiara Pavoni di cui apprezziamo moltissimo la bravura ed anche l’impegno a favore di un certo cinema indipendente, che si realizza con non poca fatica qui in Italia. Come sono stati scelti lei e gli altri interpreti?
Elisabetta Minen: Chiara è un’attrice che ci ha colpito per l’impatto che aveva sullo schermo e su di lei ho costruito quel personaggio misterioso, camaleontico, venefico che le calza come un guanto e che il suo talento ha contribuito a rendere vivido e credibile.
Organizzammo il casting ancora diversi anni addietro. La sceneggiatura non era ancora terminata. Alcuni personaggi erano ben definiti, altri non lo erano ancora, altri ancora sono stati inseriti apposta perché si voleva scritturare questo o quell’attore. Partendo da una solida base di attori di esperienza (Werner Di Donato, Saverio Indrio e Chiara Pavoni, sui quali erano stati proprio costruiti i personaggi) volevo dare risalto agli attori friulani o che comunque si erano formati all’Accademia Nico Pepe di Udine, perché anche gli attori, come molte maestranze tecniche (oltre a registi, direttore di fotografia, Luca Coassin, e molti tecnici) fossero espressione di questo territorio. Come spesso accade però, sul punto di girare, non tutti gli attori erano disponibili per altri impegni. Fu così che sono subentrati altri attori (Vivianne Treschow per Irene, Alberto Torquati per Pavel, Ivan Senin per il Novizio) scelti da Yassine Marroccu e Ronald Kosturi.
D: Quali sono state le maggiori difficoltà nella realizzazione di Three the Movie, a livello produttivo?
Elisabetta Minen: Senz’altro l’aver realizzato il film da assoluti esordienti nel lungometraggio (anche Marroccu sebbene avesse maggiore esperienza di me sui set). E’ stato poi impegnativo finanziare e organizzare un’intera produzione senza alcun contributo, direi di più, senza alcun credito da parte degli enti istituzionali preposti al sostegno delle produzioni cinematografiche regionali. Sono però grata alle tante imprese locali che hanno creduto nel progetto e che ci hanno sostenuto dal punto di vista logistico (ristoranti per il catering, case di moda e negozi di abbigliamento per i costumi, locali pubblici, fino alle tintorie per lavare gli abiti prima di restituirli) e alla Polizia di Stato per il supporto concesso per realizzare le scene di azione.
Ora come film indipendente, dobbiamo riuscire a farci notare tra mille altri.
D: Le musiche sono un altro elemento che caratterizza il film in maniera forte. Come è nata l’impostazione di questa colonna sonora? E cosa puoi dirci del compositore, di fama internazionale, che avete coinvolto nel progetto?
Elisabetta Minen: La bellissima colonna sonora di Roberto Salvalaio, è strutturale nel film. Basandosi sulle caratteristiche caratteriali e culturali del personaggio, il maestro ha assegnato a ciascun personaggio uno strumento e ha composto un brano che risuona col personaggio e ritorna nel film in variazioni melodiche che seguono il mutare dello stato d’animo del personaggio o dell’azione di quel personaggio. Non esiste un tema conduttore dominante, ma un’orchestrazione variegata che fa sì che si riconoscano ambientazioni già viste seppur differenti.
Ogni composizione verte sul numero 3, che ritroviamo nella struttura formale, nelle componenti ritmiche, nelle combinazioni strumentali. La colonna sonora, dall’assolo strumentale all’esecuzione orchestrale, offre tanti “colori” che vanno da brani composti secondo la tradizione classica, nello stile barocco o tardo romantico, a brani di avanguardia, live elettronics o con combinazioni di strumenti e sonorità molto particolari.
Scelsi Roberto per questo lavoro, amico col quale avevo già collaborato in passato per concerti, cd musicali e vari progetti musicali, perché ne apprezzavo l’opera. Questa era per lui la prima esperienza di musica da film, ed è stata una sfida che ha accettato di buon grado. Concertista, compositore e direttore d’orchestra molto apprezzato all’estero (Giappone, Cina, Mongolia, Russia, Germania, Venezuela…) sono sicura farà ancora molto parlare di sé (e spero anche per questo film!).
D: Per finire, come è stata finora l’accoglienza del film, a livello di pubblico, di critica e di eventi ai quali avete partecipato?
Elisabetta Minen: Ovunque, il film è stato accolto con grande favore di pubblico e di critica. Ad oggi si è guadagnato un curriculum del tutto rispettabile nei festival internazionali: 28 premi assegnati in tutti i comparti creativi (colonna sonora, soggetto, sceneggiatura, montaggio, ensemble cast and group, miglior attore protagonista, Werner Di Donato, regista esordiente, woman filmaker, trailer), 8 nominations, e 26 selezioni ufficiali.
Dopo decine e decine di proiezioni in tante parti del mondo, dobbiamo farlo vedere qui in Italia!
Stefano Coccia