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In a Lonely Place

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VOTO: 7.5

Massacro d’amore

Coloro che vedono l’amore come idilliaco scambio di affetto tra persone, magari durevole per l’intera esistenza, si astengano dal guardare l’esordio alla regia di Davide Montecchi. Chi invece è convinto che l’amore stesso possa essere qualcosa di simile ad una malattia inevitabile, un’ossessione impossibile da sanare proprio per la diversità di fondo sussistente tra esseri umani sin troppo rinchiusi nelle rispettive unicità, dovrebbe vedere In a Lonely Place per molti, importanti, motivi. Primo dei quali una eccellente cura nella messinscena, rarissima da riscontrare in un film italiano anche di budget più consistente. La regia di Montecchi ammalia lo spettatore in un gioco di immagini assai sofisticato, fatto di morbidi carrelli che scivolano lungo le stanze della location che ospita il “gioco d’amore” al centro del plot, di specchi che riflettono le sagome dei due protagonisti in un moltiplicarsi di significato praticamente senza fine, grazie anche ad una fotografia – opera di Fabrizio Pasqualetto – capace di donare nuove rigenerazioni luminose ai due personaggi simbolicamente prigionieri l’uno dell’altro nonché al luogo che li ospita.
Assistendo a In a Lonely Place, come il lettore avrà certamente compreso, ci si trova catapultati in una dimensione sottilmente metaforica, una sorta di abisso della mente che azzera (o quasi) qualsiasi concezione etica di uso comune nella teoria. Un uomo e una donna si ritrovano in un enorme albergo in disuso – luogo ideale a rappresentare gli insondabili recessi della mente umana sin dai gloriosi tempi di Shining – per apparenti motivazioni professionali. Lui è un fotografo, lei la modella dei suo scatti. Un qualcosa di preesistente tra loro, solo intuibile, deflagra in modo graduale, conducendo quello che avrebbe dovuto essere un banale appuntamento di lavoro verso territori inesplorati di inquietudine e angoscia. Comincia un duello governato dagli istinti eppure anche filtrato dalla ragione, in cui insicurezze e rancori emergono con violenza in entrambi i “contendenti”. Il loro è un amore a proprio modo perfetto, poiché esprime visceralmente tutto quello che in altri contesti rimane, ipocritamente, celato. In un crescendo di tensione per molti versi insostenibile, i due arriveranno ad una delle epifanie possibili sull’amore, pagando ovviamente un prezzo enorme sul piano sia del dolore fisico che mentale.
Scendere nel dettaglio di In a Lonely Place significherebbe in qualche modo svilire un’opera che fa della libera visualizzazione e interpretazione da parte di chi guarda il suo scopo principale. Si potrebbe obiettare che i dialoghi, ovviamente centrali in un contesto simile, non sempre reggono di fronte ad una durata di quasi un’ora e mezza di film, incappando talvolta in ripetizioni e sottolineature ridondanti. D’altra parte pretendere un risultato pari alla magnificenza di un Roman Polanski tutto sommato affine quale quello dello splendido Venere in pelliccia – ma lì c’erano nobili origini letterarie e teatrali a monte – sarebbe stata senza dubbio pretesa eccessiva. Eppure la sceneggiatura scritta a quattro mani da Montecchi stesso ed Elisa Giardini consente a questo viaggio nel luogo solitario (e sconosciuto) del rapporto a due di lasciare un segno indelebile per la sua sincerità di fondo, per quel suo generoso mettersi a nudo assieme ad interpreti (i convincenti Luigi Busignani e Lucrezia Frenquellucci) che incarnano alla perfezione tutto ciò che mai vorremmo essere e che invece sempre diventiamo, nel momento stesso in cui ci dibattiamo senza speranza nella ragnatela di un amore impossibile nella sua completa realizzazione, dove predatore e preda non sono altro che espressioni della medesima debolezza umana alla quale è impossibile sottrarsi.
Per Davide Montecchi, quindi, un esordio – girato tra l’altro in inglese, quasi una dichiarazione d’intenti per provare ad uscire dai nostri asfittici confini – oltremodo coraggioso, nella speranza che trovi presto altre significative conferme.

Daniele De Angelis

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