Il velo di Maya
Fu vero Surrealismo? Ai posteri l’ardua sentenza. Perché mai Jean Mitry, nella sua Storia del cinema sperimentale, rubricava Maya Deren nel capitolo Surrealismo USA quando l’artista rifiutava di essere così considerata? Contrapposti argomenti tornano a battagliare nel centenario della cineasta, ognuno sul suo destriero di ragioni. Effettivamente, quando Deren si mise a impressionare immagini su pellicola, correvano gli anni Quaranta, il Surrealismo storico era giunto ai titoli di coda. Il dichiarato modello della nostra, e lo si percepisce dalla presenza maliarda, nelle sue fantasmagorie, di specchi, statue che si animano, porte dischiuse (magari da Anaïs Nin, come in Ritual in Transfigured Time) su mondi stregati, è lo stesso Jean Cocteau che l’ortodossia surrealista aveva ferocemente deplorato. Mancano, poi, in Deren, la foga antiborghese e anticlericale e, di conseguenza, il corredo d’invenzioni dissacranti e blasfeme di Luis Buñuel. Dallo schieramento opposto ci segnalerebbero, tuttavia, che i cortometraggi di Deren sono pur sempre concrezioni dell’inconscio e delle forze endogene che fuoriescono dalle sue crepe, cariche di sensualità e di angoscia. È giusto. Sogni e più spesso incubi disarcionati dalla ragione.
Già, figura complessa Maya Deren, intellettuale dagli interessi molteplici: la letteratura, la danza, l’antropologia, l’Oriente. E, a un certo punto, il voodoo, che la spinse a intraprendere diversi viaggi nei Caraibi, a filmare per ore, a scrivere un libro; e che ha finito per infittire l’enigma della sua morte precoce, il 13 ottobre 1961. Perché s’insinuò che l’improvvisa emorragia cerebrale, che gli intimi imputarono all’insostenibile pressione emotiva a cui la donna era, allora, sottoposta, fosse stata, invece, cagionata dalle pratiche rituali sempre più estreme a cui lei era dedita.
Per Eleonora Derenkowsky, nata a Kiev il 29 aprile 1917 da una colta famiglia ebrea che, per scampare ai pogrom, si spostò sulla East Coast americana, l’incontro con il filmmaker ceco Alexander Hammid, secondo dei suoi tre mariti, fu determinante. È lui a consigliarle lo pseudonimo, Maya, con cui è tuttora conosciuta; nomen omen, bisognerebbe chiosare, perché Hammid s’ispirò alla dea indù dell’illusione. Ed è con lui che Deren forgia le sue prime opere. Nel 1944, partecipa non accreditata alla lavorazione di un gioiello d’ironia come Private Life of a Cat, un must per gli ailurofili militanti: una ventina di minuti di documentario in cui due gatti d’appartamento, He e She, vengono seguiti nei mesi che intercorrono tra l’accoppiamento, la gravidanza, il parto, l’allevamento della prole. Ma nel 1943 i coniugi Hammid avevano già plasmato un capolavoro come Meshes of the Afternoon, in cui Deren esterna una personalità e ossessioni inequivocabili. Arduo stilare una sinossi, tra chiavi che si mutano in coltelli, situazioni che si ripetono all’insegna di un eterno ritorno dell’uguale e moltiplicazioni fisiche della protagonista, impersonata da Deren stessa. Un’arcana presenza di nero ammantata gironzola sotto casa di una ragazza, lasciando cadere a terra, fatto più volte replicato, un fiore d’ibisco. Da subito viene intonata una nota lugubre: quello strano essere non promette nulla di buono. La giovane, o meglio i suoi doppi, entro le mura domestiche, rivive un susseguirsi di eventi che si ripropongono fedeli a se stessi. Finché, adagiatasi sulla poltrona, finisce per essere accoltellata da una sosia misteriosa. Sta sognando? Si è forse assopita, sulla poltrona? A giudicare dal profilo onirico degli accadimenti, si direbbe di sì. Ma, rientrato, il compagno la troverà morta davvero, la gola tagliata, gli occhi sbarrati.
Nella cripta dell’io si annidano spauracchi occulti, ma anche impulsi inconfessabili. Le paure basiche dell’uomo nero, della violenza, del trapasso. Tutti retaggi (biologici? Ancestrali?) a cui la regista ha dato corpo qui e in altri titoli, mostrando spesso donne minacciate, inseguite, spacciate. Ma la materia psichica più inquietante è, forse, rappresentata da certe tenebrose propensioni. Ciò contro cui lotta la fanciulla di Meshes è, probabilmente, un istinto suicida. D’altronde, è il suo doppio ad ammazzarla e le molte gemmazioni dell’io individuale nel corso dell’incubo non sono che altrettante parti di un animo e di una soggettività tormentati. Deren ci costringe, fin dall’esordio, a inoltrarci negli anfratti cupi della nostra interiorità. E continua a turbarci alludendo all’indistinguibilità oggettiva di sogno e veglia. È il vecchio apologo di Chuang-tzu: è il saggio ad aver sognato di essere una farfalla o la farfalla che sogna di essere uomo? Un rompicapo filosofico che porterà Arthur Schopenhauer ad affermare che vita e sogni sono pagine di uno stesso libro, letto ora con più attenzione, ora con meno.
Ci sarebbe ancora molto da notare, nella picture del ’43. Ad esempio, il connubio sinistro, à la Cocteau, tra gli specchi e la morte. Nell’autore francese, gli specchi, componente iconografica irrinunciabile, sono l’adito dell’aldilà. Le sang d’un poèt ne offre un saggio eloquente, ma l’esempio principe può essere identificato con Orfeo, tanto la tragedia del 1926 che il film liberamente tratto nel ’50. Cocteau ce ne fornisce anche la ragione: lo specchio, nel privare la nostra immagine di consistenza carnale, ci rende degli spettri, ombre impalpabili ed evanescenti, così come il cinema, d’altronde, è “la morte al lavoro sul corpo degli attori” (discorso che rischia di condurci troppo lontano…). Ebbene, in Meshes, l’incappucciato dal fiore in mano ha uno specchio al posto del viso (!). Ma, soprattutto, in una delle scene più mirabili, che da sola varrebbe una carriera, la protagonista, colta da un raptus, tenta di pugnalare lo spasimante e, con il coltello, infrange una superficie vitrea… Vedere per credere.
Come altri corti dell’autrice, anche Meshes è un silent movie. Un preziosismo, certo, in un evo in cui perfino Charles Chaplin si era arreso al sonoro, ma anche una fruttuosa strategia: in fondo, l’insonorità marca le distanze da empiria e realismo, accrescendo il senso dell’illusione. E un contributo essenziale è reso anche dalla temporalità ovattata e sospesa che scandisce i “plot”, in cui non solo le cose risuccedono, ma anche nel loro compiersi paiono guidate da un ritmo dilatato, da un’endemica lentezza, tanto nei movimenti studiati degli attori quanto per il frequente ricorso al ralenti. È il tempo della femminilità. Sulla difformità cronologica di maschi e femmine, l’artista deteneva un’opinione molto interessante, che affidò a un nastro oggi ascoltabile all’interno del minuzioso documentario di Martina Kudlacek In the Mirror of Maya Deren (2001): l’uomo è una “now-creature”, intrinsecamente proclive all’azione, al hic et nunc; il verbo delle donne è, invece, “to wait”, attendere. La donna è fatta per aspettare nove mesi la nascita del figlio che porta in grembo (ben più della micia She…) e questo condiziona, immancabilmente, la sua percezione del tempo. Deren era conscia che i suoi fossero i film di una donna.
Sempre nel 1943, la regista coinvolge Marcel Duchamp in un’impresa rimasta incompiuta, Witch’s Cradle, che sfrutta come teatro di posa la Art of This Century Gallery aperta da Peggy Guggenheim. Il frammento pervenuto è, comunque, sintomatico: il sortilegio scagliato dalla strega del titolo produce un intersecarsi di fili a mo’ di ragnatela che rischiano di avviluppare anche un attempato signore, per l’appunto Duchamp. Il filo, simbolo intriso di storia (le Moire…), è un altro dei motivi ricorrenti nell’opera omnia di Deren. Sarà lei stessa ad aiutare la giovane co-protagonista di Ritual in Transfigured Time a riaggomitolarne uno. Il filo ha, in fondo, un’innata doppiezza: è fragile e pernicioso. E sulla duplicità dei significanti l’artista ha sempre speculato.
Il 1944 reca, invece, con sé il meraviglioso At Land. Una sinuosa creatura muliebre (ancora Deren) viene sputata dalle onde su una battigia. Risalendo una duna di sabbia, si ritrova sulla superficie di una tavolata dove banchetta allegramente una frotta di simposiasti. Lei striscia sulla tovaglia e la tavola diventa un sottobosco in cui la donna si appropinqua come una predatrice a caccia. A capotavola, siede un uomo, intento a giocare a scacchi. La caduta di un pezzo condurrà la protagonista, decisa a recuperarlo, in un luogo esterno, dove le capiterà di passeggiare accanto a diversi compagni, tra cui John Cage, per finire, poi, al capezzale di un moribondo. Riecco l’anima nera di Deren. E un’ulteriore allusione alla morte. Anche se la suggestione più potente è nel finale, laddove due personaggi femminili giocano a scacchi sulla costa, il mare turgido di vento sullo sfondo. Un’effigie che potrebbe essere definita bergmaniana ante litteram, addirittura ispiratoria, se non fosse proprio il maestro svedese a raccontarci, in Lanterna magica, come l’immagine, nel Settimo sigillo, della partita a scacchi in riva al mare tra il cavaliere e la Morte derivi da tutt’altra fonte (un affresco in una cappella in Dalecarlia).
Espressa nell’idioma del soprannaturale, in At Land si staglia una concezione dell’esistente che bandisce la nozione di discontinuità o separazione. Gli scenari più disparati si susseguono con disinvoltura ontologica: interno, esterno e via sciorinando (e veglia-sonno, vita-morte: tutto torna). La gestualità della danza, assurgendo a cantrice cosmologica, commenta al meglio una realtà così strutturata. E la danza, uno dei primi amori di Deren, assistente, in gioventù, della celebre coreografa Katherine Dunham, la fa da padrona in A Study in Choreography for Camera (1945), insieme al danzatore Talley Beatty che, arioso, volteggia attraverso scenografie artificiali e naturali, luoghi e dimensioni differenti. E se la totalità è, in fondo, un piroettare di metamorfosi che abolisce l’accezione e il valore, comunemente intesi, di principio e fine, nessuna illustrazione della fisiologia dell’essere apparirà più icastica di un maestro di Tai Chi che si esercita: è quanto “accade” in Meditation on Violence (1948), fenomenologia delle armoniche movenze di Chao-Li Chi.
È, dopotutto, una teoria di ambienti diversi anche lo sfondo di Ritual in Transfigured Time (1946), pellicola in cui torna ad avvertirsi l’influenza di Cocteau nelle sculture che prendono vita. E seminano il panico. Per sottrarsi alle bieche intenzioni di una figura virile, uno dei personaggi femminili si immergerà nel mare, forse nelle stesse acque da cui veniva partorita la protagonista di At Land. E, mentre il corpo sprofonda, il ricorso al negativo lo tramuta in un simulacro luminescente.
L’uso del negativo diverrà un autentico contrassegno della Deren matura, come attesta l’etereo The Very Eye of Night (1958), che sarebbe una semplice clip in cui dei ballerini sgambettano se le loro sagome non venissero convertite in silhouette luminose che si librano su nero. E l’effetto è quasi quello di una coreografia di stelle nei recessi di un cielo buio. Firmata da una cineasta che, da anni, s’intrufolava, sgomenta e ardita, nei penetrali della notte. Della notte che è in noi.
Dario Gigante