Fino all’ultima parola
Non vi è alcun dubbio sul fatto che il principale motivo d’interesse per il potenziale spettatore nei confronti di Il professore e il pazzo, prima ancora dell’incredibile storia che il film racconta, è legato alla possibilità di vedere contemporaneamente sul grande schermo due pesi massimi del cinema mondiale: i premi Oscar Mel Gibson e Sean Penn. Strano a dirsi, eppure non era mai capitato che lavorassero fianco a fianco al medesimo progetto, nemmeno con uno dei due impegnato dietro la macchina da presa. Ma ora quel momento è arrivato e non a caso le loro interpretazioni rappresentano al netto il motore portante e il punto di forza della pellicola, che in generale ha potuto contare su un cast di tutto rispetto, nel quale attrici come Natalie Dormer e Jennifer Ehle sono riuscite in più di un’occasione a rubare la scena ai più quotati colleghi. Merito di una scrittura che ha saputo delineare e disegnare i profili caratteriali e le one lines dei personaggi principali e secondari con la stessa cura.
Ancora prima del pubblico, però, a godere delle intense e coinvolgenti performance attoriali è stato il regista esordiente P. B. Shemran, nome d’arte dello sceneggiatore e produttore cinematografico iraniano Farhad Safinia, che per il suo esordio dietro la macchina da presa e con un solo cortometraggio alle spalle (Outside the Box del 2001) non ha dovuto preoccuparsi più di tanto della suddetta componente. Un lusso, questo, che non capita spesso, che da una parte può facilitarti il compito e dall’altro complicartelo se non sei in grado di gestire una materia prima pregiata come quella messa a disposizione a caro prezzo dalla produzione. Insomma, una responsabilità e un peso non da poco da caricarsi sulle spalle, a maggior ragione se si parla di profili di prima fascia come quelli di Gibson e Penn, qui alle prese con personaggi particolarmente complessi da affrontare. A giudicare dal risultato, che il pubblico italiano potrà giudicare con i propri occhi a partire dal 21 marzo, Shemran ha saputo prendere il meglio dal duo e dalla restante parte del cast, quanto basta per regalare alle platee un film dove le interpretazioni riescono a sopperire ad alcune debolezze strutturali che andremo più avanti a evidenziare.
Ma facciamo un passo indietro per andare a scoprire a cosa e a chi Gibson e Penn hanno prestato corpo e voce. La pellicola, adattamento cinematografico del libro del 1998 “L’assassino più colto del mondo” scritto da Simon Winchester, narra la storia vera rimasta a lungo segreta del Professor James Murray (Mel Gibson) al quale viene affidata la redazione del primo dizionario al mondo che racchiuda tutte le parole di lingua inglese, meglio conosciuto come l’Oxford English Dictionary. Per far ciò il Professore avrà l’idea di coinvolgere la gente comune invitandola a mandare via posta il maggior numero di parole possibili. Arrivato però ad un punto morto, riceve la lettera di William Chester (Sean Penn) un ex professore ricoverato in un manicomio perché giudicato malato di mente. Le migliaia di parole che il Dr. Chester sta mandando via posta sono talmente fondamentali per la compilazione del dizionario che i due formeranno un’insolita alleanza che si trasformerà in una splendida amicizia.
Insomma, quella che il best-seller prima e la sua trasposizione poi raccontano è una di quelle vicende leggendarie animata da due protagonisti straordinari, che intraprendono una collaborazione folle per la realizzazione di un’opera mai vista prima. Il professore e il pazzo si muove dunque, alla pari della sua matrice cartacea, su un doppio binario destinato poi a intrecciare i fili narrativi e drammaturgici: l’impresa letteraria e la nascita di un’amicizia. Ciò che ne scaturisce è la storia dei legami fra un atroce delitto e la genesi del più importante dizionario al mondo. Non era cosa semplice da fare ma la scrittura ci è riuscita, anche se il tutto passa attraverso un ammontare di scene indispensabili che devono farsi spazio tra altrettante che dilatano eccessivamente la timeline. Ripetizioni con qualche sequenza fotocopia di troppo, orpelli e digressioni gonfiano la durata e la spingono appena oltre la soglia delle due ore, appesantendo la fruizione. Una ventina di minuti in meno al momento del fotofinish avrebbero giovato e non poco alla scorrevolezza del racconto. Il che probabilmente è dipeso dal bisogno di assecondare e rispettare le dinamiche del romanzo, quando si sa che nel percorso di trasposizione le esigenze cinematografiche sono ben altre e andrebbero sempre ascoltate. In tal senso, la carne al fuoco è già molta e se non bastasse a questa si vanno ad aggiungere ulteriori sotto-tracce ugualmente importanti, a cominciare dalle relazioni matrimoniali e sentimentali che fanno parte integrante e determinante della vicenda. Questo per dire che i problemi strutturali ai quali accennavamo in precedenza sono il frutto di una saturazione che si sarebbe potuta tranquillamente evitare con un lavoro di asciugatura. Ciò che resta è quindi un film appesantito da un evidente surplus nel dosaggio degli ingredienti, ma capace comunque di toccare le corde del cuore e farle vibrare come ad esempio nelle scene della deposizione al processo e degli incontri in manicomio tra Eliza Merrett e William Chester.
Francesco Del Grosso