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Icaros: A Vision

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VOTO: 5

Pseudo visioni herzoghiane

Dietro a Icaros: A Vision di Leonor Caraballo e Matteo Norzi c’è un’ulteriore storia travagliata e di speranza, quella che da origine a questa narrazione e che la rende, a posteriori, più pregna di significato. L’idea di questa pellicola, incentrata sulle proprietà mediche e psichedeliche della pianta Ayahuasca e delle conseguenti liturgie sciamaniche, sorge dal tragico evento che Leonor Caraballo si trovò a vivere e combattere, cioè la scoperta di un cancro all’ultimo stadio. Diagnosticata nel 2008, la fatale malattia stroncherà la vita dell’autrice il 24 gennaio del 2015; però la Caraballo ha avuto l’ostinazione di terminare il suo “ultimo viaggio”, cioè realizzare la pellicola Icaros. Al netto del giudizio critico verso l’opera, è innegabile, però, che in molte immagini del film siano percettibili il “susto” (spavento) e la forza dell’autrice, che attraverso questo film, contraddistinto sin dall’inizio come suo testamento artistico e personale, voglia condividere questa terminale esperienza.

Sceneggiato dalla stessa Caraballo, dal suo compagno di vita (e produttore) Abou Farman e da Matteo Norzi, Icaros vuole essere, come specificano i titoli di testa, prima di tutto una visione che travalichi la percezione cinematografica comune. Film, quindi, più d’immagini e percezioni sensoriali che di recitazione classica. La maggior parte dei dialoghi sono semplici interazioni tra il gruppuscolo di personaggi racchiusi nella comunità Shipibo, mentre le restanti dichiarazioni verbali sono un’attenta e didattica forma di comunicazione per lo spettatore, atte a comunicargli informazioni più specifiche sulle pratiche miracolose delle piante curative, come ad esempio quando la voce fuori campo disquisisce elencando le differenti specie. Sul tessuto filmico, girato nei veri luoghi raccontati, i due registi vi aggiungono forti elementi visionari che trasformano la tangibile realtà in un mondo sospeso. L’intenzione è di mostrare, rendendoli “palpabili” agli occhi degli spettatori, i probabili viaggi lisergici che possono scaturire dagli effetti della bevanda realizzata con la Ayahuasca. Immagini “allucinate” che interagiscono con la realtà vera e che circondano soprattutto Angelina, una specie di alter-ego della regista. Rappresentazioni visive che spaziano dalla computer grafica fino al disegno e/o fumetto, e alcune di queste “estasi” distorte sembrano uscire dagli incubi cinematografici di David Lynch, oppure prendono forma simili a delle installazioni di video arte.
Icaros, nel suo modo di rapportarsi con la selvatica e irta realtà dell’Amazzonia peruviana e nella sua maniera di cercare un procedimento visionario, diviene a suo modo una pellicola herzoghiana. Il nume Werner Herzog non è peregrino, perché i registi ci ripropongono alcune scene “liquide” del folle Fitzcarraldo, e leggendo anche le difficoltà di realizzazione subite in loco dalla troupe, questa vicinanza si rafforza. Però Icaros non ha quella vera forza d’immagini e narrazione che alimentava le pellicole estreme del regista tedesco. La pellicola diviene, quindi, solo una testimonianza o uno pseudo-documentario di un mondo altro. Nel cast vi figura anche Filippo Timi, che recita quasi se stesso, interpretando un attore che soffre di una fortissima balbuzie, però il suo ruolo (e la sua interpretazione) non aggiunge e/o migliora l’opera. Icaros si può apprezzare (giustamente) solamente per la grande forza della Caraballo di essere riuscita a portare a termine tale – faticosa – pellicola (la sua prima e unica regia), però artisticamente è un’opera che non convince, proprio perché tutto rimane in superficie, e le visioni spesse volte generano più perplessità che vero stupore.

Roberto Baldassarre

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