Restiamo umani
C’è in Human un confronto dialettico davvero proficuo tra il potere dell’immagine e quello del Logos, della parola. Come a riproporre lo schema di antiche leggi alchemiche, in cui un microcosmo estremamente concentrato diviene esso stesso specchio del macrocosmo, il continuo susseguirsi di volti umani tesse un fitto dialogo con la furia degli elementi naturali, con la maestosità di quei paesaggi che si stagliano sullo schermo, dando vita a un’alternanza pregna di suggestioni. E così un discorso dalle notevoli potenzialità cinematografiche finisce per generarne un altro, più filosofico, che pone in stretta correlazione la forza schiacciante della Natura e la resiliente fierezza dell’Uomo, la cui esistenza è talvolta incastonata in uno scenario che promette l’Inferno in Terra.
Nel caso del mastodontico lavoro effettuato dal francese Yann Arthus-Bertrand, un passato da fotografo (e si vede benissimo) oltre che da regista, sarebbe più corretto parlare del progetto cinematografico in sé, perché limitarsi ad analizzare le scene confluite nel film suona senz’altro riduttivo. Contatti preliminari con diverse istituzioni. Viaggi in paesi difficili. Interviste. Tantissime interviste. Riprese di paesaggi “scorbutici” realizzate in condizioni estreme. C’è questo è molto di più in un lungometraggio la cui (forse apparente) linearità genera grande solennità, un lungometraggio la cui versione estesa dura almeno 3 ore ma di cui è stata approntata una versione più corta e fruibile, circa 2 ore, per concedere anche agli studenti delle scuole la possibilità di riflettere su questo incandescente materiale visivo e narrativo. Così da sottrarre per un po’ i più giovani all’estetica “mordi e fuggi” che si sta affermando nel mondo, anche in virtù dell’indiscutibile popolarità dei social media.
Human di Yann Arthus-Bertrand è in ogni caso uno straordinario esercizio di storytelling, nonché un documento importante che andrà a depositarsi nella memoria collettiva. Persone di tutti i continenti si raccontano alla videocamera, attraverso primi piani ravvicinati che esaltano qualsiasi dettaglio del viso, facendo sì che le proprie storie personali vadano a depositarsi in un calderone dove ribolle di tutto: guerre, genocidi, violenze famigliari, ricordi d’infanzia, amori vissuti fino in fondo, amori sofferti, incontri, separazioni. Come in un’antologia del vivere umano non c’è quasi argomento che non venga trattato. A tutte le latitudini. Dalla Siria in macerie agli stati africani ugualmente attraversati da guerre civili, dai sobborghi delle metropoli americane allo sterminato territorio russo. E democraticamente la macchina da presa lascia diritto di parola a tutti, dagli assassini alle vittime, da chi è in cerca di vendetta a chi è in cerca di perdono, da chi ha rinunciato all’amore a chi lo insegue anche in situazioni disperate; da chi forse non è stato mai ripreso o fotografato prima, come gli abitanti dei più remoti villaggi della Terra, fino a chi ha addirittura governato uno stato, come il popolarissimo ex presidente dell’Uruguay, José “Pepe” Mujica. Ed è proprio da lui, esempio eticamente inattaccabile e di grande spessore empatico, umano, che arriva non a caso una delle testimonianze più profonde e vibranti, una di quelle che ti lasciano i brividi addosso.
A parte la colonna sonora, sinceramente invadente ed eccessiva, nel sottolineare qualsiasi spunto emotivo possano offrire i racconti, c’è veramente poco da rimproverare a un documentario come Human. La sua temerarietà produttiva, sostenuta inevitabilmente da partner di peso, crea inequivocabilmente paragoni con altri cineasti, come gli austriaci Nikolaus Geyrhalter e soprattutto Michael Glawogger, scomparso purtroppo troppo presto; film-maker, questi, le cui opere documentarie hanno affastellato non di rado situazioni drammatiche provenienti da diverse parti del globo, coniugando in modo ardito il carattere spesso allucinante dei frammenti di vita proposti, con una raffinatezza delle inquadrature e della fotografia stessa in grado di generare forti contrasti.
Pur agendo su quanto offerto dalla realtà in modo simile,Yann Arthus-Bertrand cerca strada facendo una sua personale cifra stilistica. E forse la trova nel tocco straniante con cui vengono isolati alcuni elementi del paesaggio, come anche in quei semplici ma vertiginosi stacchi di montaggio che instaurano legami estemporanei, tali da coinvolgere ambienti lontanissimi tra loro. Ne è un esempio quasi sublime l’impressionante e repentino passaggio dall’inquadratura dell’uomo in piedi ai piani alti di un grattacielo, ripreso di notte dietro quei vetri trasparenti, illuminati da dentro, all’immagine dell’altro uomo che di giorno vediamo svettare solitario su una remota montagna, il cui affacciarsi su scenari desertici viene poi evidenziato da un movimento di macchina aereo.
Moti ascensionali. Rapportati qui a vecchie e nuove torri di Babele, che in qualche misura circoscrivono l’anelito dell’Uomo verso l’infinito.
Stefano Coccia