Quella casa nel bosco
Se c’è una cosa che il cinema (in particolare quello al di fuori del genere) ha imparato dopo La vita di Adele di Abdellatif Kechiche è l’elasticità del rappresentabile, la possibilità di uno sguardo intimo più profondo e autentico.
Non sorprende, allora, che anche in un film come Hide and Seek seconda edizione del Fish & Chips– presentato nel corso della torinese – sia proprio il sesso a riacquistare il suo ruolo e la sua dimensione, liberandosi da ogni morbosità o artificiosità, esplicito e naturale come il lento, graduale affiatarsi dei suoi protagonisti.
Sembrerebbe aspirare a una rivoluzione sussurrata la pellicola di Joanna Coates, a uno stravolgimento in punta di piedi della morale imperante. O, almeno, è quello a cui idealmente aspirano i suoi quattro personaggi principali – Max, Charlotte, Leah e Jack – giovani ritiratisi a vita privata in un cottage sperduto nella campagna inglese, dove non esistono coppie né divisioni e tutto è condiviso, persino l’amore.
É una sorta di comune fuori tempo massimo quella che la regista inglese esalta in questa piccola e intima produzione, un film delicato e trattenuto come la storia che mette in scena, lontana anni luce da quel cinema indipendente cui, a prima vista, si potrebbe ascrivere.
Mancano le parole, a un film come Hide and Seek, agli antipodi da quella logorrea indie che prende il nome di mumblecore, così diffusa nelle pellicole generazionali statunitensi.
Una delicata commedia dei sentimenti, che alla rottura e all’enfasi preferisce la contemplazione silenziosa, i vuoti da riempire, una naiveté lontana dal gusto corrente.
Un prodotto fuori dai canoni e fuori dal suo contesto, che ribalta – gentilmente – prospettive e convenzioni piccolo borghesi, esule come Jack (lo statunitense Daniel Metz, anche co-autore del soggetto), alla ricerca di una sensibilità altra, forse possibile solamente nella quiete di un cottage d’oltreoceano.
Ne esce la ricerca di un Paradiso in Terra costantemente ostacolata e insidiata (l’avvento dell’ex fidanzato di Charlotte, che irrompe nella non-convenzionalità della “famiglia”, destabilizzandone le dinamiche), ma mai disillusa, fiduciosa fino al ridicolo, fino al suo tenace e testardo lieto fine.
É curioso che sia proprio un film che fa dell’autenticità, del realismo e del rifiuto di qualsiasi sensazionalismo il suo punto di forza – e della soggiacente carica drammatica una delle sue più intriganti (sebbene frustrate) promesse – a essere così ancorato a una visione tanto utopistica e de-problematicizzata. Come se cercasse, attraverso l’irrealtà di una favola bucolica e sentimentale, di esorcizzare paure universali.
Come se questa storia di amore collettivo, desideri e utopie non fosse altro che il tentativo di scovare l’ultimo antidoto contro la solitudine e, in definitiva, contro la paura della morte.
Mattia Caruso