Sogni infranti
Tyler Taormina è un regista e produttore indipendente di Los Angeles. La collaborazione con la Tom Lynch Company per la produzione di programmi televisivi per bambini e ragazzi ha segnato il debutto del suo percorso professionale. Da quel momento in poi, ha iniziato a tracciare il proprio percorso nel mondo del cinema dove ha investigato con curiosità spirituale e psicologica le possibilità offerte da un cast corale. Per farlo ha scelto di esordire sulla lunga distanza proprio con un teen-movie o college-movie che fa della coralità il cuore pulsante, un cuore che come vedremo alterna momenti di grande efficacia ad altri nei quali questa viene meno.
In Ham on Rye, presentato in concorso alla 24esima edizione del Milano Film Festival, Taormina ci conduce per mano nella provincia americana per raccontare il classico rito di passaggio di gruppo di adolescenti, catapultandoci nel giorno della festa di fine anno, quella in cui si cresce, e che ha come luogo d’iniziazione fisico e simbolico allo stesso una paninoteca vintage. Tutti i giovani invitati sono emozionati, forse balleranno, forse troveranno un bacio, ma una cosa è certa, in quel luogo i rispettivi sogni entreranno in rotta di collisione con l’amara o dolce realtà.
Nel ridurre all’osso la narrazione del suddetto passaggio, evitando allo spettatore la solita e immancabile trafila, ma arricchendolo con il calore dell’immaginario degli anni Cinquanta e Novanta mescolati senza soluzione di continuità in una riuscitissima maionese impazzita di suoni, oggetti, abiti e colori, il regista statunitense porta sul grande schermo un coming of age che ha il grandissimo merito di smontare uno ad uno i cliché del filone. Un filone che ha illustri precedenti oltreoceano e non solo, ma che negli ultimi decenni (soprattutto negli anni Ottante e Novanta) ha conosciuto anche dei momenti bui quando è stato oggetto di derive demenziali che lo hanno fatto scivolare nelle sabbie mobili della mediocrità. Guado dal quale Taormina è andato a ripescarlo moltissime stagioni dopo, riabilitandolo ridandogli credibilità. E per condurre a termine la missione non poteva che guardare e strizzare l’occhio a quello che è divenuto un modello e un punto di riferimento del genere in questione, ossia American Graffiti. Dal cult di Lucas del 1973 attinge a piene mani, per poi aggiungere delle pennellate personali davvero degne di nota che mettono in vetrina le indubbie qualità di un regista del quale sentiremo parlare e che ha davanti a sé ampi margini di miglioramento, legati a un talento ancora acerbo e destinato a sbocciare. Talento, il suo, che nel primo dei due atti che vanno a comporre l’architettura del racconto si manifesta in maniera più che cristallina. Le scene ambientate nella paninoteca Monty’s ne sono la dimostrazione tangibile e visiva, soprattutto quando l’elemento danzeresco si palesa sullo schermo.
Dove, invece, il film e la scrittura, non la messa in quadro sempre ricca di spunti, ha dei vistosi cedimenti, mostrando fragilità, è nel secondo atto. Lì i colori e le trovate drammaturgiche di Taormina perdono di intensità e con essi si spegne anche la lampadina che aveva illuminato nella prima parte lo sviluppo narrativo. In questa fase l’autore ripone nel cassetto le speranze e i sogni dei protagonisti per mostrarne i vetri rotti e gli strascichi. La notte scende su di loro, ma anche su un’opera che perde gran parte della sua carica, quasi si fosse esaurita come la benzina in un serbatoio.
Francesco Del Grosso