Un viaggio nel Mito
Ci sono opere che nello sfuggire volutamente a qualsivoglia tentativo di mera classificazione in un genere piuttosto che in un altro trovano il proprio motivo di essere e di esistere. La tendenza al dovere a tutti i costi etichettare un film per veicolarlo o identificarlo con più semplicità fa parte delle cattive e pigre abitudini degli addetti ai lavori. Per fortuna esistono ancora registi che, con le loro creazioni audiovisive, si battono per complicare la messa in atto di tale pratica. Tra quesi c’è Carlos Casas, artista a 360° e filmmaker coraggiosissimo, la cui attività abbraccia diversi mondi, dal cinema al suono, passando per le arti visive. Il risultato è una produzione polivalente, caratterizzata da pellicole che fanno dell’ibridazione e della contaminazione la cifra stilistica e l’elemento portante. In tal senso, Cemetery è solo l’ultima in ordine cronologico a entrare a fare parte di un corpus filmico caratterizzato da un’estrema coerenza negli intenti e nel modus operandi.
Con la sua ultima fatica dietro la macchina da presa, proiettata nel corso della 24esima edizione del Milano Film Festival all’interno della neonata sezione “Other Natures”, il regista spagnolo offre alla platea di turno l’occasione più unica che rara di assistere a un nuovo incredibile tour fisico ed emozionale in una terra lontana. Dopo la Patagonia, il Lago d’Aral e la Siberia, Casas si avventura nel vero senso della parola tra le fitte e misteriose boscaglie dello Sri Lanka per raccontare l’ultimo viaggio di un pachiderma prossimo alla morte e del mahout, che ne è custode, verso il mitico cimitero degli elefanti, sorta di Eldorado inesplorata della quale non si conoscono coordinate geografiche tantomeno le topografie. Ed è proprio partendo dalla leggenda di quel luogo che il cineasta di Barcellona indaga un intero immaginario della natura legandolo alla vicenda di un ideale ultimo elefante impegnato nella tappa finale della sua esistenza.
Il risultato è un film dal DNA cangiante che si reinventa nel corso della timeline, mutando pelle e connotati mano a mano che i quattro capitoli che la vanno a comporre scorrono davanti agli occhi del fruitore, anch’esso sollecitato dai cambiamenti di forma, estetica e contenuto che si susseguono ad assecondarne gli sviluppi. Il che determina un approccio camaleontico sia da parte del mittente che del destinatario, trasformando di fatto Cemetery in qualcosa che non ha un’ossatura definita, ma più di una. Al suo interno e sullo schermo si materializzano segmenti diversi l’uno dall’altro che partono dal documentario classico di osservazione sino ad arrivare a quello sperimentale. Nel mezzo una fusione di linguaggi che chiamano in causa persino una costruzione a tavolino di segmenti di finzione, come nel caso della sequenza dei bracconieri che si gettano all’inseguimento dei due protagonisti. Il tutto dà origine a un progetto multiforme che non ha nessuna intenzione di essere circoscritto e catalogato, ma che grazie e attraverso questo reinventarsi può trovare diverse piattaforme dove manifestarsi. Sta qui la grande forza del progetto.
Per quanto ci riguarda, abbiamo ovviamente focalizzato l’attenzione sul progetto destinato alla sala cinema ed è lì che ne abbiamo apprezzato la potenza e il valore di un’opera che prima di essere un film è una vera e propria esperienza sensoriale. Se nei primi capitoli argomenta in maniera mai didattica e didascalica sul rapporto uomo-animale-natura, nei restanti si diverte prima a rievocare la letteratura del mondo perduto poi a immaginare come possa essere la destinazione finale del viaggio. Raggiunta la leggendaria meta, questa viene completamente avvolta nell’oscurità e con essa anche lo schermo. Per svariati minuti il testimone del racconto passa all’elemento sonoro con un incredibile ed emozionante lavoro di soundscapes creati dall’autore in giro per il mondo insieme a Chris Watson e Tony Miatt, partendo spesso dai versi degli animali. In quel momento un flebile gioco di ombre darà il suo contributo, mostrando superfici e figure indistinte palesarsi nel buio, ma per il resto la palla passa interamente alla componente sonora e alla capacità dello spettatore di associare forme e volti ai singoli elementi di una straordinaria sinfonia.
Francesco Del Grosso