L’arte della maschera
Assistendo al ‘gioco’ di Georgetown emerge subito un aspetto: l’eclettico Christoph Waltz per esordire dietro la macchina da presa, si è sì ispirato a una storia realmente accaduta (raccontata nel luglio 2012 in un articolo di Franklin Foer sul New York Magazine), ma ha scelto una vicenda che lo mettesse in risalto come attore (anche con le caratteristiche che ben conosciamo, a partire dalle espressioni del volto e quella smorfia sorniona). Nella scena iniziale ci troviamo sulla cima di una collina nel deserto, la macchina da presa si avvicina lentamente e ci svela (citando anche inquadrature illustri della Settima Arte) il tedesco Ulrich Mott (lo stesso Waltz), il quale, in divisa irachena, saluta i soldati che marciano nel campo di addestramento sotto di lui.
Subito dopo il ‘panorama’ cambia, «lo vediamo ad una sontuosa festa in una casa a Georgetown, mentre accetta complimenti da ospiti illustri e si accinge ad accompagnare a tavola sua moglie, la novantenne padrona di casa Elsa Breht» (dalla sinossi ufficiale) – a cui dà corpo un’ancora credibilissima e raffinata Vanessa Redgrave. C’è, però, una donna, che non è riuscita a farsi incantare da Mott, la figlia di Elsa, Amanda (Annette Bening). La sua presenza porta a uno scontro tra i due coniugi, ma lui uscirà di casa in piena notte e questo contribuisce al meccanismo del depistaggio.
Il mattino seguente la polizia viene convocata per indagare sulla morte della donna. Ed è da questo punto nodale che, attraverso un flashback e un incastro di piani temporali, che lo spettatore scopre il percorso di ascesa, in particolare di Mott, il quale sin da subito mostra un aspetto caratteriale: l’ambizione. Questi arriva a Washington, negli anni ‘80. Dopo essere stato licenziato dall’ufficio di un parlamentare per la sua eccessiva esuberanza, decide di rubare il badge del capo di gabinetto per partecipare ad una cena dei corrispondenti candidati alla Casa Bianca. La sequenza è cruciale perché mette in mostra come agisce Mott, in questo caso mira l’obiettivo – Elsa (all’epoca una rispettata giornalista sessantenne, con una credibilità costruita negli anni) – e comincia a corteggiarla con un savoir faire sfacciato, ma che gode della capacità oratoria dell’uomo e della sensazione di solitudine provata dalla donna.
Quando ‘viaggiamo’ nel passato, da pubblico intuiamo quasi subito di che pasta sia fatto, eppure al contempo comprendiamo come una donna di una certa caratura possa rimanere incantata dai suoi ‘trucchi’ e nell’osservarlo entrare velocemente nelle grazie di Vladimir Petrovsky (alle Nazioni Unite a Ginevra) e in poco tempo tessere rapporti diplomatici internazionali con diverse persone di spicco, fino a creare l’Eminent Persons Group (di cui non vogliamo scrivervi troppo, ma preferiamo che lo scopriate nel corso della visione, sappiate solo che componendo i pezzi del puzzle mette a nudo certe dinamiche degli States. Il tutto grazie a uno ‘straniero’ che si intrufola con l’inganno).
Georgetown è un’opera prima che gode di interpretazioni di attori di alto livello, ma anche di una sceneggiatura ben costruita da David Auburn (insignito del Premio Pulitzer per la drammaturgia e il Tony Award alla migliore opera teatrale per la sua pièce “Proof”), suddivisa in capitoli (prima legati alle maschere indossate da Mott – lo stagista, il maggiordomo, il diplomatico – e poi alle azioni decisive che ci portano allo smascheramento – l’incidente, l’inserimento e la verità). La regia di Waltz ben confeziona il tutto, senza grandi guizzi, ma glielo perdoniamo essendo all’esordio.
Vi possiamo solo anticipare che la chiusura del cerchio avrà la stessa marcia militare dell’incipit, ma non aggiungiamo altro.
Georgetown, tenendo conto sempre della situazione che stiamo vivendo, è stato lanciato da Vision Distribution direttamente on demand dal 19 maggio sulle piattaforme SKY PRIMAFILA Premiere, APPLE TV, CHILI, GOOGLE PLAY, INFINITY, TIMVISION, RAKUTEN TV, THE FILM CLUB E CG DIGITAL.
Maria Lucia Tangorra