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Una vita in fuga

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VOTO: 5

La famiglia Penn

Divo progressista, volto dell’America liberal, impegnato in tante battaglie civili, Sean Penn torna a dirigere un film, dopo Il tuo ultimo sguardo, film del 2016 pure presentato a Cannes, tonfo clamoroso di un artista che pure aveva saputo confezionare opere di indubbio valore, ponendosi come coscienza critica dell’America guerrafondaia di George W. Bush. Con Flag Day (per l’uscita italiana Una vita in fuga) torna a gareggiare per la Palma d’Oro, ma va detto subito che non si riscatta dal precedente abominio. Un film tratto da una storia vera, ci viene subito segnalato dalla classica scritta iniziale. Si tratta di quella della giornalista Jennifer Vogel, impegnata in scottanti inchieste sull’ambiente, donna che ha avuto una vita famigliare molto difficile anche per il suo tormentato rapporto con il padre, un criminale dedito a rapine e alla falsificazione di banconote. Vogel ha raccolto le sue memorie nel libro “Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life”, che Sean Penn adatta ritagliandosi il ruolo del padre della giornalista, piazzando i suoi figli, Dylan Penn e Hopper Jack Penn, nei ruoli rispettivamente della protagonista Jennifer Vogel e di Nick Vogel.

La storia della giornalista, il cui nucleo è quello di un’amicizia tra padre e figlia, divisi da tantissime cose, serve a Penn per realizzare un nuovo affresco dell’America profonda, nei suoi paesaggi desolati hopperiani, nelle sue distese di praterie e campi di grano, ritagliandovi una storia di mediocrità, di una famiglia in cui il padre è un criminale e la madre è alcolizzata, dove la figlia, rimbalzata tra i genitori separati, subisce anche tentativi di molestie dal compagno della madre. Un film di piccola gente, con tutti gli stilemi del genere, dove i personaggi sono anche fisicamente mediocri. Ma in ciò si inserisce anche il classico sogno americano, nella rivalsa della protagonista e nel suo riscatto sociale, diventando una donna di successo che si impegna per il bene comune. Tutto ciò contrappuntato da quel simbolo già nel titolo del film, celebrato nel Flag Day il 14 giugno, il giorno di festa che commemora la data, nel 1777, di approvazione ufficiale della bandiera a stelle e strisce.
Sean Penn attraversa vent’anni di storia americana, partendo dal 1975, inserendo, tra i pochi riferimenti storici quello alla presidenza di Clinton, probabilmente a lui cara. Con il suo direttore della fotografia Danny Moder, gira il film in pellicola Kodak 16mm, riversando poi in digitale, conferendo alle immagini quella tipica sgranatura pre-digitale. E usa il paesaggio immacolato canadese, della provincia di Manitoba, per visualizzare un’America rurale sempre più difficile da trovare negli USA. Cosparge il film di simboli vintage, dai centauri in Harley-Davidson alla popolare rivista Reader’s Digest. E accenna a problemi atavici come quello della contaminazione ambientale, pure un simbolo, in quelle fotografie di rane deformi che non possono non far pensare subito al pesce con tre occhi dei Simpson.

Tante buone intenzioni per nulla. Sean Penn non aggiunge nulla ai tanti ritratti americani, patriottici e anti-patriottici, nazionalistici e anti-nazionalistici, che il cinema ha prodotto negli ultimi decenni. Non si percepisce quella tensione tormentata di amore e odio per la patria, tipica per esempio del cinema di Oliver Stone, o quel lirismo rurale del primo Malick o del Lynch di Una storia vera. E nemmeno riesce a scandagliare il paese, nella storia e nella geografia, come poteva fare un Forrest Gump. La rievocazione del passato recente degli States, gravido di tanti spunti per un film concepito nell’era Trump, è pure buttata via, priva del minimo pathos. Tutte le buone intenzioni naufragano in quel risibile momento della morte del padre, un suicidio in diretta, che ancora vorrebbe far riflettere sul ruolo dei media. Il film propone due immagini, involontariamente simboliche. Ci sono le banconote false, opera di riproduzione meticolosa dei modelli veri. E poi le rane deformi, tali per la contaminazione delle acque, tema ancora caro alla Hollywood progressista, pensiamo solo a Erin Brockovich. Ma Penn non riesce né a copiare modelli di successo né ha sviluppare una sua forma cinematografica propria.

Giampiero Raganelli

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