Autogestione ieri e oggi
Durante questo 33° Trieste Film Festival le diverse declinazioni del cosiddetto “cinema del reale” continuano a tenere banco. E il Premio Alpe Adria Cinema assegnato da una giuria internazionale (Marta Popivoda, Nino Kirtadze, Gianfranco Pannone) al miglior documentario in concorso (euro 2.500) è andato a Factory to the Workers di Srđan Kovačević (Tvornice Radnicima, Croazia 2021). Ecco la motivazione dell’ambito riconoscimento: con la potenza delle sue immagini e il suo enorme impegno, ci immerge in una lotta operaia dei nostri giorni davvero unica. Onesto e avvincente, il film ci mostra quanto sia complesso costruire e sostenere un’utopia socialista nell’oceano del capitalismo. La fabbrica agli operai!
Entrando nello specifico, il film ripercorre con dovizia di particolari le recenti peripezie della ITAS, industria metallurgica croata che all’epoca della Jugoslavia unita era tra i fiori all’occhiello di quel sistema produttivo, fondato sull’autogestione dei lavoratori, cui Tito aveva dato sempre più spazio anche sulla scia delle teorizzazioni di Milovan Đilas, tradotte peraltro in azioni concrete sin la 1950; lo stesso Đilas era stato un politico di primo piano, agli albori della Jugoslavia comunista, per poi cadere in disgrazia dopo accesi contrasti coi vertici del Partito.
Dalle didascalie iniziali di Factory to the Workers si apprende come la ITAS, azienda con sede a Zagabria, all’irrompere sulla scena delle prime privatizzazioni selvagge avesse subito un tentativo analogo, portato avanti grossolanamente e con serie manomissioni della produttività degli impianti; ma a salvare la situazione furono gli operai stessi, i quali decisero di mantenere in vita (soluzione più unica che rara) il sistema di autogestione e proprietà collettiva della fabbrica sperimentato in era socialista, così da riadattarlo all’attuale sistema azionario e tentare di resistere alla sempre più spietata concorrenza internazionale.
Nel documentario di Srđan Kovačević si assiste pertanto, dall’interno, ad aspri conflitti generazionali e a tentativi non sempre facili di creare compromessi, coi quali mantenere il controllo della catena produttiva senza cedere alle lusinghe del libero mercato. Ma cosa può succedere, se con il pensionamento dei lavoratori più esperti e l’innesto di nuove leve, destinate ben presto a farsi tentare dai salari più alti – seppur con minori tutele sociali – di qualche multinazionale, la qualità del prodotto fatalmente viene meno, assieme alla regolarità delle forniture? E se, con il progressivo indebitamento della società, le stesse retribuzioni mensili non possono più arrivare ai dipendenti per intero e nei tempi stabiliti?
Senza dubbio un’opera come Factory to the Workers descrive molto bene talune contraddizioni in atto in paesi come quelli dell’ex Yugoslavia, laddove lo sporadico tentativo di mantenere in vita certi modelli cooperativistici e di autogestione in passato fiorenti è andato a cozzare, inesorabilmente, con la brutalità del modello neoliberista. Ciononostante, non condividiamo fino in fondo l’entusiasmo dei giurati: il prevalere di discussioni molto specifiche in ambito tecnico, economico, amministrativo, rischia a volte di appiattire il ritratto dei lavoratori in questione, sacrificandone proprio il versante umano, privato. Rispetto ad altre opere (documentarie o di finzione) realizzate di recente sul fronte degli attacchi al lavoro, portati avanti sistematicamente nella società globalizzata, quello in questione potrebbe infine figurare – al di là delle ampie dosi di sentimenti “jugonostalgici”, ivi proposte – quale sguardo fin troppo algido, distaccato. Troppo saggio di economia applicata, insomma, allorché l’impressione è che in certi frangenti sarebbe stato opportuno, proficuo, scivolare in modo ancor più deciso, seppur con la discrezione del caso, nella dimensione esistenziale senz’altro precaria e in subbuglio dei protagonisti.
Stefano Coccia