Hong Kong in versi
Per la filmografia di Ann Hui, decana del cinema di Hong Kong che si districa tra le possibilità offerte dalla settima arte con libertà estrema, l’Asian Film Festival ha sempre mostrato grande interesse, sin dalle prime edizioni. Ce lo ha ricordato il 9 aprile in sala uno dei curatori del festival, citando ad esempio Love after Love, film che la regista aveva realizzato nel 2020 e che al Cinema Farnese è stato proiettato nel 2022, proprio durante la 19esima edizione dell’Asian.
Ma anche sulle pagine della nostra rivista il fascino che le sue opere cinematografiche continuano a esercitare è del tutto evidente. Quale testimone chiamiamo volentieri in causa Marina Pavido, la quale si era espressa così riguardo alla ricostruzione storica di Our Time Will Come, drammone bellico ambientato nel 1942 durante la sprezzante, spietata, feroce occupazione dell’esercito giapponese: “Scenografie curate sin nel minimo dettaglio che ricostruiscono fedelmente una Hong Kong degli anni Quaranta, costumi ora sontuosi, ora miseri e personaggi che – grazie anche alle più che convincenti interpretazioni degli attori protagonisti – sembrano venuti fuori direttamente dal secolo scorso.”
Me se in quanto a cinema di finzione l’autrice ha sempre mostrato di avere polso, sia nel venire a capo di impegnative produzioni in costume che nel dirigere pellicole più intimiste, non poche sono le perle realizzate invece in ambito documentaristico. La sera del 9 aprile sempre al Farnese è stato mostrato Elegies (Si, 2023), documentario selezionato fuori concorso per questa 22esima edizione dell’Asian Film Festival. La reazione del pubblico, un po’ per l’ora tarda e un po’ per l’andamento senza particolari scossoni del film, non è stata tra le più entusiaste. Molti hanno abbandonato la sala prima che la proiezione finisse. Ma chi è rimasto, senz’altro i più motivati, avrà senz’altro apprezzato come la regista abbia saputo catturare ancora una volta l’anima della metropoli asiatica, facendo dialogare tra loro la sensibilità di alcuni intellettuali hongkonghesi e i differenti ambienti sociali, perlopiù in crisi, coi quali ciascuno di loro si relaziona.
La stessa Ann Hui, costantemente presente nell’inquadratura durante le lunghe, approfondite conversazioni coi letterati (quasi come se la documentarista, esponendosi in prima persona, adottasse a sua volta per il proprio lavoro un “Io poetico”), in una di queste scene afferma d’aver sempre provato lo stimolo, da laureata in Letteratura qual è, a realizzare una ricerca documentaria sui poeti locali, fermandosi però regolarmente di fronte alla mancanza di tempo e all’accavallarsi di altri impegni. Non ci sembra affatto casuale che le modalità giuste e soprattutto il tempo li abbia trovati adesso, in un momento così delicato per la sua Hong Kong.
Al contempo materico ed etereo, popolare e colto, intimista e rivolto ai bisogni della collettività, Elegies coglie attraverso i ritratti degli scrittori con cui la regista è entrata in confidenza nel corso degli anni una notevole serie di sfumature, che vanno a comporre il ritratto di una società sempre più soffocata dalla crisi economica, dal complesso rapporto col gigante cinese, dalla perdita di quei tratti identitari che vivono ormai solo nei ricordi (e qui la ricognizione degli spazi cittadini compiuta da Ann Hui ha un ché di commovente e sofferto), come pure dalle più recenti restrizioni pandemiche che fanno capolino nel film introducendovi una nota sottilmente ansiogena e polemica.
Naturalmente si parla molto di letteratura e poesia, nel documentario, quasi fino allo sfinimento. E accedendo a livelli di profondità non così usuali. Va da sé che un’ulteriore sfumatura di simpatia l’abbiamo provata per quel poeta, che, con una certa sfrontatezza, descrive sia i lavori più personali che la necessità di portare avanti sulle riviste rubriche più dozzinali, pur di sbarcare il lunario, problematica resa evidente sia dal suo risparmiare sul cibo che dai vestiti pieni di toppe da lui orgogliosamente indossati. Ma altrettanto forte è l’ammirazione che suscita un altro pensatore, meglio inserito in ambiente accademico, la cui lezione in streaming nell’aula vuota (altro triste lascito dell’era Covid), che lo vede spaziare da Brecht a Celan passando per molto altro ancora, è una delle più belle lezioni di letteratura cui abbiamo (virtualmente) assistito. Non potendola riportare per intero, ci piace chiudere il pezzo con un’allusiva frase del russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam da lui citata e poi sapientemente contestualizzata: “Abbasso il simbolismo, viva la rosa vivente“.
Stefano Coccia








