Sacralità mediterranea contro rigore teutonico
“(….) e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti”
(Gabriele D’Annunzio,
La sera fiesolana, Laudi, 31-33)
La piccola magia del film realizzato dalla cineasta iberica Icíar Bollaín risiede anche in questo, nel suo poggiarsi sulle miserie del presente come anche su una sacralità antica, senza tempo, ancora in grado di sfidare l’odierna dissoluzione di valori. Alla stessa maniera di un ulivo millenario. Fa pertanto piacere che El olivo sia stato scelto per la serata inaugurale del 10° Festival del Cinema Spagnolo e che alla proiezione abbia presenziato la protagonista Anna Castillo, così minuta ma traboccante di energia in questa sua apparizione sul grande schermo, tanto da essere uscita trionfalmente dal recente Premio Goya: proprio a lei è stato tributato nel 2017, in Spagna, il riconoscimento per la Miglior Attrice Esordiente.
Non perdiamo di vista, però, un altro elemento importante: il film di Icíar Bollaín è stato scritto, rielaborando alla propria maniera fatti di cronaca accaduti di recente nella penisola iberica ed appresi grazie a un articolo di giornale, da un Paul Laverty che ha saputo trasferire anche qui quel radicato afflato umanista, ove l’urgenza delle lotte sociali e una profonda empatia convergono naturalmente, già ravvisato in certe sue memorabili sceneggiature destinate a Ken Loach. Il fattore umano e l’approdo in qualche misura simbolico del racconto fanno di El olivo un’opera magari lineare e senza particolari scossoni, sul piano narrativo, capace però di esprimere le contraddizioni del presente senza fermarsi alla superficie.
Come in molte pellicole di Ken Loach, per l’appunto, si parte subito dalla rappresentazione del lavoro. Nelle primissime inquadrature vediamo la protagonista Alma (ovvero la già menzionata Anna Castillo) svolgere alcune modeste mansioni in un pollaio, che fa parte dell’azienda di famiglia. Ma ben presto scopriamo anche il suo legame speciale col nonno. Pare che costui si stia ormai lasciando andare, deperendo rapidamente, anche per non essere mai venuto a patti in cuor suo con la scelta così pragmatica e disinvolta dei figli, tra cui il papà di Alma, i quali pur di tamponare le temporanee difficoltà dell’azienda avevano preferito vendere il loro ulivo millenario, cui l’uomo si sentiva legato sul piano affettivo e che ne rappresentava ancora il forte legame con la terra d’origine. Lo stesso albero che svettava su quei campi sin dai tempi dei Romani. Ma dove mai sarà finito? L’intrepida Alma viene a scoprire che la multinazionale tedesca cui è stato venduto ne ha fatto il proprio simbolo, trasferendolo in Germania e trasformandolo nel malinconico totem posto all’ingresso della sede centrale, un algido e impersonale palazzone pieno di uffici. Sempre alla stregua dei più caparbi e generosi personaggi incontrati nel cinema di Ken Loach, la giovane Alma si metterà in viaggio nel tentativo di porre rimedio a una situazione già in parte compromessa, sfidando donchisciottescamente quel colosso economico e mostrando così un grande affetto nei confronti del nonno, della terra dove è nata e degli sforzi compiuti in passato per portare avanti una simile attività. Ciò che colpisce, quindi, è anche il ritratto di tre generazioni diverse condensato nel carattere e nelle scelte dei vari protagonisti: il nonno di Alma legato alle proprie radici, la generazione di mezzo rappresentata invece dal papà di Alma piegatosi alle regole del mercato, ed Alma stessa votata a combattere per riappropriarsi del ruolo cui i genitori avevano abdicato. La presenza/assenza dell’ulivo millenario è il fulcro attorno al quale simbolicamente e fattivamente si muovono le differenti aspirazioni di ognuno.
Potrà anche apparire un volo pindarico, il nostro, ma la cornice economica vessatoria che fa da sfondo al racconto ci ha fatto venire in mente le parole di un saggio ben argomentato e politicamente scomodo della giornalista Tiziana Alterio, ossia “La Guerra silenziosa – La crisi dell’Europa e la rinascita mediterranea che ci salverà”: “Siamo in guerra. Una guerra silenziosa ma non meno feroce di una guerra rumorosa combattuta con armi e bombe. È accaduto tutto così velocemente che quasi non ce ne siamo accorti. La vita di milioni di persone nei Paesi dell’Europa Mediterranea in pochissimi anni non è più la stessa, è cambiata radicalmente. Una guerra silenziosa tra l’élite finanziaria, collusa con il potere politico, e il popolo. Ne è derivato un disastro economico epocale con un aumento della povertà, della malnutrizione tra i bambini, dei suicidi e della fuga di talenti dal Sud Europa verso i Paesi più ricchi del Nord.
Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro e, in parte anche la Francia, tutti paesi dell’Europa mediterranea, accomunati negli ultimi anni da un medesimo destino: recessione economica, debito pubblico in aumento, politica di austerità con tagli alla spesa pubblica e aumento delle tasse. Paesi al collasso che hanno subito forti intromissioni dell’Unione Europea e in alcuni casi della temutissima Troika nella loro politica economica nazionale, ma alle quali i governi dei singoli Stati hanno ceduto senza opporre resistenza.”
Ecco, ciò che fa Alma, contrariamente a tanti governi europei pavidi o apertamente collusi, è proprio OPPORRE RESISTENZA. Nel nome di legami famigliari. Nel nome del lavoro da cui la famiglia trae sostentamento. Nel nome dell’appartenenza alla propria terra. Nel nome di radici antiche come quelle di un ulivo millenario. Il solco di una Tradizione che rimanda a Omero, a Esiodo, a Virgilio, alle origini stesse della civiltà occidentale. Ed è anche per questo che, quale ultimo commento al bel film di Icíar Bollaín, ci vien voglia di riproporre i versi dell’Odissea, nell’arcinota e vibrante traduzione di Ippolito Pindemonte: “Bella d’olivo rigogliosa pianta sorgea nel mio cortile, i rami larga e grossa molto, di colonna in guisa. Io di commesse pietre ad essa intorno mi architettai la maritale stanza, e di un bel letto la coversi, e salde porte v’imposi e fermamente attate. Poi, vedovata del suo crin l’oliva, alquanto su dalla radice il tronco ne tagliai netto, e con le pialle sopra vi andai con leggiadria, e v’adoprai l’infallibile squadra e il succhio acuto.”
Stefano Coccia