Chi ci salverà dalla bellezza?
Certo, l’estetismo dal sapore gratuito rappresenta uno dei maggiori “peccati originali” del nuovo corso del cinema firmato da Terrence Malick. Interpreti fascinosi impegnati in faticose elucubrazioni sentimentali, abbinati ad immagini di ricercata suggestione, potrebbero fornire le coordinate per una deriva cinematografica perfettamente inclinata su di un univoco piano sensoriale, di pura superficie. Eppure c’è qualcosa d’altro, che ha portato il regista di autentiche pietre miliari generazionali – sia diegetiche ma non solo – come La rabbia giovane (1973), ad intraprendere un percorso talmente ricco di insidie da finire con l’arenarsi all’interno di esso. La problematica riguarda il suo desiderio recondito di cogliere l’essenza di persone e situazioni attraverso l’occhio onnipotente della macchina da presa. Un gesto quasi divino, insomma. Negato però ai comuni mortali. Il risultato finale, come dimostrato ampiamente anche da quest’ultimo Song to Song, sfiora la “pornografia intellettuale”. Nel senso dell’uso del mezzo cinematografico come strumento penetrativo di un’intimità – di finzione ma non poi troppo, viste le valenze filosofiche che Malick stesso attribuisce alle sue opere girandole in questo modo – che mai dovrebbe essere violata in modo così diretto. Nemmeno dai legittimi proprietari, se ci concedete questo aforisma, anche quando si tratti di persone in carne e ossa. Malick invece, depositario assolutista di un’Arte che nessuno si permette di mettere in dubbio, lo ha fatto e continua imperterrito a farlo. Realizzando, in tutta evidenza, prodotti destinati ad ammiratori a prescindere del suo nome. Dal capolavoro The Tree of Life (2011) in poi, il suo cinema è divenuta un’eterna coazione a ripetere: flussi di coscienza segmentati tra i vari personaggi discettano sui massimi sistemi, in particolar modo sull’amore e le difficoltà che ne conseguono, timori compresi.
In Song to Song – il titolo allude alla passione musicale che accomuna il terzetto dei protagonisti Rooney Mara, Ryan Gosling e Michael Fassbender: manco a dirlo tutti estremamente dotati di fascino – si intrecciano giochi di coppia dettati dall’incertezza che alla lunga possono risultare semplicemente stucchevoli. Del tipo Faye (Mara) sta con Cook (Fassbender) ma s’innamora di BV (Gosling). Però, dopo una triangolazione amorosa alla Jules e Jim, sente di non poter concedersi completamente a BV, come accade in tutte le storie intellettualmente impegnate. Perciò ha una sbandata saffica, mentre i due uomini cercano di intessere vecchi e nuovi rapporti. E queste sono solamente le premesse narrative di un balletto amoroso polifonico che può solo agognare la grazia, realistica o composta ad arte, di un Eric Rohmer o un Jacques Rivette, centrando invece l’insostenibile pesantezza di un Cinema ormai sin troppo consapevole delle proprie aspirazioni “alte”. Un tripudio di grandangoli che provano ad allargare il senso dell’immagine, di riprese in steadicam che tentano di insinuarsi in quel territorio proibito costituito dall’anima nascosta di figure disperatamente protese verso una tridimensionalità difficilmente raggiungibile attraverso la costruzione pseudo-intellettuale. Da ammiratori della primissima ora del Cinema di Malick rimpiangiamo la, tanto sublime quanto difficile da mettere in pratica, arte della perifrasi che ne caratterizzava il periodo precedente: centrare un tema forte, per poi cucirgli addosso tutte le riflessioni interiori che si ritenevano necessarie. Come accadeva, ad esempio, con l’orrore della guerra – e relativi ragionamenti – ne La sottile linea rossa (1998). O comunque in ogni sequenza della manciata di titoli da lui regalati al popolo cinefilo prima di venire colpito dall’attacco bulimico che lo ha portato a girare, in pratica, per ben tre volte – To the Wonder, Knight of Cups e Song to Song – con variazioni minime lo stesso film di finzione in un brevissimo lasso di tempo.
Speriamo in un cambio di registro con l’imminente Radegund, se non altro ambientato nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Un passato che possa essere foriero di nuove ispirazioni. Perché ormai il modus operandi di Malick si è fatto, implacabilmente, maniera; e Song to Song ne rappresenta, assieme, lo zenit ed il nadir, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda.
Daniele De Angelis