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È arrivata mia figlia!

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VOTO: 7

Politica, denuncia, disamina di valori universali: non è una commedia da due soldi

San Paolo, giorni nostri. Val lavora come governante presso la villa di una ricca famiglia borghese, accudendo amorevolmente il figlio, di cui si prende cura sin da quando era in fasce, e adoperandosi come impeccabile cameriera, di giorno nelle pulizie di casa, di sera servendo tartine, stuzzichini e bevande alle sfarzose cene di gran galà della propria padrona.
Ineccepibile nel proprio lavoro, Val fa sì che ogni cosa rimanga al proprio posto, nella villa degli abbienti coniugi, così come ogni persona e ogni mansione, proponendo un’inamovibilità di cui le calde ore passate a stendere i panni o a sventolarsi fra caldo e tedio, ne sono una neanche troppo velata rappresentazione.
Ma una circostanza improvvisa quanto inaspettata interromperà questa monotonia, infrangendo precari equilibri e distruggendo, di fatto, le fragili fondamenta su cui si ergono le relazioni all’interno della villa, i cui benestanti proprietari si ritroveranno costretti man mano a svelare quanto si cela dietro a sorrisi di circostanza e benevoli gesti d’affetto, dettati da buona educazione quando non compassione.
Premiato dalla giuria del Sundance Film Festival e dal pubblico del Festival di Berlino, È arrivata mia figlia! della regista brasiliana Anna Muylaert è un piccolo gioiello del cinema d’Oltreoceano che, oltre a intrattenere con una trama che gioca continuamente sull’effetto sorpresa e sulle diatribe tra personaggi buffi e drammatici allo stesso tempo, offre numerosi spunti di riflessione su tematiche assai delicate e tutt’oggi fortemente sentite in alcuni paesi dell’America Latina, come l’immobilità sociale o il gap culturale, sempre più profondo, fra le piccole città del Nord e le grandi metropoli della costa e del Sud.
Un film politico, penserebbero in molti. Ma quando una tematica locale diviene un semplice spunto per comunicare valori universali, ecco che dalla politica si passa a discorsi assai più profondi, dove i personaggi, portatori di una storia, di una cultura e di determinati costumi, da protagonisti di un racconto fine a se stesso, divengono vere e proprie allegorie.
Pur rimanendo un film nel complesso leggero, È arrivata mia figlia! si presenta come una pellicola assai ricca di immagini, in questo senso, dove la povera Val, oltre che una simpatica governante, diviene la vittima di una stupida credenza per la quale gli esseri umani son bollati sin dalla loro nascita e hanno più o meno diritti in base alla loro estrazione, nel pubblico come nel privato; la ricca padrona, oltre che moglie di famiglia e datrice di lavoro, diviene la rappresentazione della borghesia più ipocrita e melliflua. Così come il giovane figlio diviene l’emblema di quella depressione che non permette di pensare di poter diventare, un giorno, diverso dai propri genitori. Marionette che danzano e si muovono all’interno di un simpatico teatrino dell’intrattenimento, orchestrato dal più mansueto e apparentemente innocuo dei burattinai: il padre di famiglia, nonché datore di lavoro di Val, dai modi certamente più accoglienti dell’arcigna moglie, ma in grado di manipolare l’intero sistema, che senza di lui non si reggerebbe nemmeno in piedi, come confessa in una delle scene più emblematiche del film.
Ma ciò per cui questo lungometraggio prende le distanze e si differenzia dal pessimismo tipico del cinema brasiliano, è la possibilità di riscatto che offre; la speranza che quella coazione a ripetere possa interrompersi. Quella speranza si chiama Jessica, la giovane figlia di Val approdata a San Paolo per sostenere il test d’ingresso alla facoltà di architettura. Una speranza di riscoprirsi uguali attraverso il rapporto interumano, quello vero, quello che non lascia spazio alle differenze di classe, né tantomeno all’ipocrisia borghese, che basa le proprie relazioni su criteri di convenienza, rivendicando un’uguaglianza di facciata atta al massimo a proporre un po’ di compassione per chi è senza speranza.
Ancora una volta i titolisti italiani ci mettono in guardia dalle pellicole valide, affibbiando nomignoli buffi e sminuenti, più o meno consapevoli – chi può saperlo? – che una traduzione letteraria del metaforico Que Horas Ela Volta? potrebbe certamente attirare un pubblico in cerca di qualcosa di più poetico di una commedia da due soldi.

Costanza Ognibeni

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