Voyeurismo e discesa negli abissi per Jim Carrey
Arriva in Italia, dopo due anni dalla realizzazione, Dark Crimes, la terza fatica del regista greco Alexandros Avranas, che s’era imposto all’attenzione internazionale vincendo il Leone d’argento nel 2013 alla Mostra di Venezia con il notevole Miss Violence. E non si può certo dire che l’attesa tra il pubblico sia poca, considerando che la promozione del film, ispirato da un articolo di David Grann pubblicato sul The New Yorker, ha puntato molto sulla presenza del molto amato Jim Carrey, alle prese con quello che è senza dubbio il ruolo più cupo della sua carriera d’attore.
Carrey veste i panni dell’investigatore Tadek che, a un solo anno di distanza dalla pensione, in una Polonia dai contorni oscuri, si occupa di un caso d’omicidio in precedenza archiviato, che sembra riguardare un sex club e i suoi frequentatori. L’illuminazione sulla sua possibile risoluzione gli viene in seguito alla scoperta dell’esistenza di un libro dello scrittore Kozlow in cui le modalità del crimine in questione sono riportate con inquietante fedeltà all’interno della finzione del romanzo. Scoprirà verità scomode ed orribili.
Il fulcro tematico di Dark Crimes è il desiderio sessuale e in particolar modo una sua accezione aspra, violenta e conturbante che obnubila le menti degli uomini, spingendoli verso istinti ferocemente animali e verso le più basse nefandezze. Attorno ad esso Avranas costruisce un film che, in teoria, dovrebbe elencare tra i suoi punti di forza l’interpretazione di Jim Carrey, il quale invece delude. Non basta un deciso cambio di look (scompaiono i capelli, mentre spunta una barba incolta) per far trovare a suo agio l’attore canadese in un ruolo che evidentemente non è nelle sue corde, pur non essendosi egli dedicato solo alla comicità o alla comicità demenziale in passato. La forzatura di molte sue espressioni di rabbia o di dolore risulta lampante. Il suo personaggio, “l’ultimo poliziotto onesto in Polonia”, come viene definito, è una figura tutto sommato positiva, anche se non immune da ombre che investono soprattutto il suo passato e alcuni suoi metodi sul lavoro poco ortodossi, seppur votati alla ricerca di giustizia e verità.
Il caso pian piano assorbe del tutto Tadek, incapace di pensare ad altro, anche solo alla propria relazione coniugale, giunta ormai ai titoli di coda. Tra la distanza, anche sessuale, tra la lui e la moglie, sempre più larga ed evidente, e il suo fanatico impulso a riascoltare senza interruzione le parole del libro di Kozlow in un’audiocassetta e a riguardare i filmati ripresi dalle videocamere di sicurezza del sex club, l’investigatore precipita in un’ossessione maniacale ed autodistruttiva. Avranas conferisce a questa caduta nel baratro del suo protagonista le caratteristiche della frustrazione e del voyeurismo senza freni, che spinge Tadek addirittura a infiltrarsi di nascosto nella casa della compagna di Kozlow, Kasia, un’intensa Charlotte Gainsbourg, e ad assistere di nascosto a un loro rapporto sessuale.
La verità cui Tadek lentamente, ma inesorabilmente, s’avvicina è qualcosa d’estremamente pericoloso, che cela in sé una fitta trama di potere e di soprusi perpetrati e subiti, dove niente è come sembra. Vi sono i carnefici e vi sono le vittime, come Kasia, figura provocante per lo stesso Tadek, non indifferente al suo sinistro fascino, la quale pronuncia parole alquanto significative: “Nella mia mente è dove mi stuprano”. Non a caso sarà lei a guidare il detective e lo spettatore stesso, cui il suo sguardo diabolicamente si rivolge nel finale (ed è questa forse la miglior trovata del film), verso la soluzione del caso, vortiginosa nelle sue implicazioni ma non per questo meno attesa.
Nella crudele Polonia di Dark Crimes le gerarchie sociali e l’ordine prestabilito che sottintende alle cose non possono essere ribaltati né inficiati, pena la riduzione al silenzio. Ad un certo punto, nel momento in cui Tadek fa il suo ingresso in un centro abbronzatura dove si svolgerà un dialogo fondamentale fra lui e il capo della polizia, compare in una stanza sulla sinistra un panorama caraibico che, nel contesto della vicenda, richiama alla memoria la via di fuga tanto agognata da Al Pacino in Carlito’s Way. Quello che manca però al film di Avranas, oltre a un contributo importante da parte di Carrey, è una reale drammaticità. Lo spettatore la avverte solamente districandosi tra i dolorosi intrecci della trama, ma raramente per merito di soluzioni convincenti da parte del regista, che sceglie di accompagnare la sua storia in maniera silenziosa, passiva, con un’assenza pressoché totale di colonna sonora. Un mezzo passo falso per il cineasta greco, dunque, che, in ogni caso, come abbiamo avuto modo d’evincere dai suoi precedenti lavori, ha nelle sue corde grandi potenzialità.
Marco Michielis