Lettera su un bambino nato e poi odiato
Manifestazione cinematografica che trasuda energia da tutti i pori, il Figari Film Fest è arrivato baldanzosamente a una quinta edizione che ha visto moltiplicarsi il numero dei giorni e anche quello degli eventi, ora dislocati tra le località di Golfo Aranci, Rudalza e Olbia. Ma come sempre è nella splendida cornice di Golfo Aranci che ha avuto luogo, il 5 luglio, la serata conclusiva, una serata a dir poco fluviale di cui il direttore artistico Matteo Pianezzi ha saputo tenere le redini, dosando con aria divertita momenti di ilarità e spazi di riflessione a margine delle tante suggestioni cinematografiche e non, proposte per l’occasione dal festival sardo.
I tanti premi e la fitta presenza di ospiti hanno contribuito a rendere vivace la serata. Alcuni dei film vincitori sono stati nuovamente proiettati. E poi tanti siparietti divertenti tra staff, ospiti, giurati e pubblico. Ma in coda, come a ristabilire un sano equilibrio fra lo spettacolo come intrattenimento e i valori più alti di cui il cinema può farsi portavoce, è stato riproposto proprio quel cortometraggio ivi premiato “per l’ambizione, lo sforzo produttivo e la resa visiva”, quale Miglior Film Italiano. Si sta parlando di Child K, corto di respiro internazionale co-diretto da Vito Palumbo e Roberto De Feo. Dopo averlo visto, potete starne certi, è difficile non farsi prendere da una comprensibilissima inquietudine, col pensiero rivolto a una delle pagine più oscure e agghiaccianti del Novecento…
Con una solida produzione alle spalle, i due autori hanno avuto innanzitutto il merito di mettere a frutto nel modo migliore i mezzi a loro disposizione, ponendo così la non comune pulizia dell’immagine e cura formale al servizio di una di quelle storie che, non è retorica sottolinearlo, meritano davvero di essere raccontate. Child K si ispira alla documentazione, riaffiorata da poco, relativa a quello che sembrerebbe il primissimo caso (noto anche come “Knauer Case”), in cui la richiesta esplicita di un capofamiglia tedesco condusse alla brutale liquidazione di un figlio nato con seri handicap fisici e/o mentali. Episodi del genere sono in tutto e per tutto emblematici del grado di abominio che il nazismo, prima ancora che scoppiasse la Seconda Guerra Mondiale, aveva già raggiunto. L’eliminazione sistematica dei portatori di handicap e di altri cittadini ritenuti non produttivi, a causa delle loro patologie, sarebbe stata poi applicata su larga scala, rendendo evidente l’esito follemente malato delle teorie sulla supremazia razziale e aprendo la strada alla politica dei campi di sterminio, con cui il Terzo Reich si è macchiato di alcuni dei crimini contro l’umanità più feroci di sempre.
Il cinema non si è occupato spesso di questo particolare aspetto della barbarie nazista. Ci vengono in mente pochi esempi, tra cui spicca l’encomiabile Amen di Costa-Gavras, film estremamente politico che scatenò non poche polemiche, nel suo puntare l’indice contro le gerarchie vaticane e i silenzi del Papa sulla Shoah, ma che nella primissima parte alludeva anche a questo: al concretizzarsi del programma di eutanasia forzata conosciuto come Action T4. Non a caso un corto come Child K ha trovato tra i suoi estimatori e sostenitori Branko Lustig, il produttore di Schindler’s List. E così, grazie anche all’interessamento degli enti che preservano la memoria dell’Olocausto, il lavoro firmato da Vito Palumbo e Roberto De Feo sta girando parecchio, ottenendo soprattutto all’estero riconoscimenti e lusinghiere valutazioni.
Ma non è soltanto la serietà dell’approccio al tema a caratterizzare in positivo questo breve, ma intensissimo film. Gli autori, oltre a scegliere interpreti di grande spessore come Lorenzo Patanè, hanno saputo costruire un clima di tensione crescente curando mirabilmente l’ambientazione e riuscendo anche, con qualche trovata registica, ad assicurare un pathos aggiuntivo, senza interferire con il rigore della messa in scena. L’esempio più eclatante è dato senz’altro dalla resa così efficace di quella lunga soggettiva, focalizzata sulla lettera spedita dalla casa dei protagonisti e recapitata direttamente alla Cancelleria di Adolf Hitler: la funesta rivelazione che ne deriva si conferma pertanto la chiave di un racconto cinematografico talmente conciso, amaro e brutale.
Stefano Coccia