Cetto torna in Italia
A diversi anni di distanza dalle uscite al cinema dei lungometraggi Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012) – entrambi per la regia di Giulio Manfredonia – ecco che il comico Antonio Albanese riporta sugli schermi italiani il suo Cetto La Qualunque nel terzo capitolo della fortunata trilogia: Cetto c’è, senzadubbiamente, anche quest’ultimo diretto da Manfredonia.
E se, malgrado il successo del primo film della serie, il secondo capitolo di era rivelato alquanto deludente a causa di una sceneggiatura eccessivamente debole e sfilacciata, ecco tornare La Qualunque più agguerrito che mai, per un nuovo capitolo di storia che – così come è stato per i precedenti – si rifà alle vicende politiche dei giorni nostri, per una bizzarra incarnazione dei nostri leader, con tanto di difetti portati all’esasperazione.
Dopo diversi anni trascorsi lontano dall’Italia – e, nello specifico, in Germania – Cetto viene chiamato dai suoi parenti al capezzale di un’anziana zia che parrebbe in punto di morte. Quest’ultima gli rivela, inaspettatamente, che egli è, in realtà, figlio di un principe, amante segreto di sua mamma per diverso tempo. Quale occasione migliore, dunque, per appropriarsi dell’eredità del suo presunto padre e tentare addirittura di far tornare la monarchia in Italia?
Siamo d’accordo: il personaggio di La Qualunque, creato ormai da Albanese circa quindici anni fa, funziona. E funziona soprattutto per la sua capacità di fotografare leader, società e situazioni appartenenti ai giorni nostri. E, per questo motivo, il primo lungometraggio della trilogia ha a suo tempo avuto anche un discreto successo. Per quanto riguarda questo ultimo lavoro, dunque, vediamo in primis un protagonista che mira sempre più al totalitarismo e che spara a zero senza peli sulla lingua contro nobili e potenti, insieme a una cittadina che a fatica – e con tanto di rimostranze da parte dei suoi abitanti – cerca di adottare soluzioni il più possibile “ecologiche”, grazie ad aree pedonali, piste ciclabili e servizi di bike sharing. Indubbiamente, nel complesso, vi sono diverse situazioni in grado di strappare più di una risata, con tanto di battute che non hanno paura di osare e una sceneggiatura che, per buona parte dell’intero lavoro, risulta complessivamente pulita. Solo per buona parte del lavoro, però.
Il problema principale di un prodotto come Cetto c’è, senzadubbiamente sta, appunto, proprio in uno script che, man mano che ci si avvicina al finale, ci appare sempre più frettoloso, sempre più raffazzonato, con tanto di personaggi che promettono interessanti risvolti (vedi, su tutti, proprio la zia morente o i suoceri tedeschi dello stesso Cetto), ma che vengono decisamente sfruttati male e un climax che arriva tanto improvviso quanto privo di mordente, per risvolti narrativi che danno tutta l’impressione che regista, produttori e l’intera troupe non vedessero l’ora di porre fine il prima possibile alle riprese. E tutto ciò, purtroppo, lascia immaginare che l’intera lavorazione si sia svolta quasi con il pilota automatico, tentando di riproporre in modo stanco e svogliato qualcosa che in passato ha già avuto successo. Possibile? Certamente. Eppure sarebbe bastata qualche piccola attenzione in più a far sì che quello che dovrebbe essere il capitolo conclusivo di un’intera saga potesse avere, nel complesso, una forma più che dignitosa.
Marina Pavido