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Cattive acque

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VOTO: 7.5

The Right Side

Tra le molte prerogative del cosiddetto cinema d’impegno civile ci sarebbe anche quella, non sempre rispettata a favore di una facile tendenza all’indignazione spettacolarizzata, di riportare la verità dei fatti nella maniera più neutra possibile. Cattive acque (Dark Waters in originale, a porre l’attenzione sull’oscurità fisica e simbolica che si cela sotto la superficie delle falde acquifere in West Virginia) sceglie la strada in apparenza quieta dell’understatement per raccontare un caso di cronaca così clamoroso da abbracciare un periodo temporale addirittura di quarant’anni, seguendo con attenzione l’evoluzione dello stesso. I fatti – ispirati da un articolo di Nathaniel Rich pubblicato sul New York Times – raccontano di un allevatore di bestiame di nome Wilbur Tennant al quale, a partire dal 1975, cominciano ad impazzire e in seguito morire le proprie mucche. Egli stesso e la famiglia contraggono serie malattie. Anni dopo si rivolge all’avvocato Rob Bilott, in quanto conoscente di sua nonna, per cercare aiuto in previsione di una possibile causa legale contro la compagnia DuPont, da lui ritenuta artefice di un massiccio inquinamento idrico nella zona, attraverso il versamento indiscriminato di materiale perfluorico sintetizzato in laboratorio. Tennant ignora che lo studio legale di cui Bilott è appena divenuto socio paritario si occupa proprio della difesa di industrie in casi come questo. Tutto appare chiaro, viste le prove inoppugnabili; ma la realtà è ben più complessa. Come capirà perfettamente Bilott interessandosi in maniera approfondita della questione.
Si può dunque definire Cattive acque come un’opera di grande spessore morale. Poiché, in primo luogo, mette di fronte i personaggi – tutti, dai principali a quelli di contorno – a delle scelte irreversibili. A Parkesburg, appunto la località di ambientazione in West Virginia della vicenda, la DuPont fornisce lavoro e benessere. Aiuta a costruire scuole e campi sportivi. Si comporta insomma come rimarchevole agente filantropico di una comunità. Ma, nel rovescio della medaglia, inquina fino alla distruzione totale dell’ecosistema. E non solo. Dalla medesima sostanza trae un materiale idrorepellente diffuso in tutto il mondo nella fabbricazione di pentole, tappeti sintetici ed altro ancora. Aumentando il fatturato in modo esponenziale. Come far comprendere alla gente l’effettivo stato delle cose? La mano che li nutre li fa anche ammalare. A quel grande regista rispondente al nome di Todd Haynes il gravoso compito di orchestrare una storia in difficoltoso equilibrio tra il sensazionalismo scandalistico e il paranoia-movie. E Haynes ne esce fuori alla grande, grazie a quel talento mimetico e poliedrico, ormai assodato, che gli consente di girare un lungometraggio contemporaneamente intriso di umori anni settanta e contenuti tipici dell’era contemporanea, frutto di indecisioni da “eccesso di informazioni”.
Il resto del lavoro lo svolge un cast perfettamente in parte, a cominciare dal protagonista Mark Ruffalo autentico maestro nella recitazione in sottrazione. Senza per nulla sottovalutare l’apporto della preziosa fotografia virata perennemente al grigio del grande Edward Lachman, a trasmettere un palpabile senso di profonda ansia e costernazione. Cattive acque è un lungometraggio che lascia il segno perché mai perde il senso di quella misura corrispondente al vissuto. Ciò nonostante alcune (inevitabili?) lungaggini tecniche nei suoi aspetti da legal-drama. Piccoli nei ampiamente riscattati da una sorta di appello morale che riguarda tutti: un invito mai gridato e tuttavia forte e chiaro a crearsi un’opinione e far sentire la propria voce. Perché tutte le opinioni possono e devono contare. Negli Stati Uniti del passato e del presente come altrove.

Daniele De Angelis

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