Cercasi immigrato negro ebreo appena atterrato sul nostro pianeta
Al Figari Film Fest il cortometraggio di Mario Savina e Emanuele Lucci, Carrozzella negra, ha vinto significativamente il Premio del Pubblico. E con merito, direi. In genere, nel recensire un film, preferisco appoggiarmi a quel plurale giornalistico, che oltre a omaggiare la tradizione può costituire l’antidoto a una dilagante trasandatezza verbale. Nel caso specifico ho deciso, in via eccezionale, di trasgredire sin dall’inizio a tale impostazione, anche per sentirmi libero di esprimere in prima persona certi voli pindarici relativi non solo al corto, ma anche alla sua positiva accoglienza in terra sarda. Voglio cioè rimarcare come un pubblico attento e partecipe abbia colto la natura differente, profondamente ironica, finanche dissacratoria, di un lavoro pronto a capovolgere determinati schemi, ma con un ghigno beffardo virtualmente stampato su ogni fotogramma. E oltre a elogiare questo ridere consapevole, intelligente, voglio approfittarne per togliermi un altro sassolino dalla scarpa, che già da tempo genera in me un po’ di fastidio: mi riferisco all’atteggiamento spocchioso di certi colleghi e di altri addetti ai lavori, sempre pronti a denigrare o a guardare dall’alto in basso i premi assegnati dal pubblico. Come se le più qualificate giurie di Cannes, Venezia o Berlino non si prestassero, in molti casi, a scelte quantomeno discutibili. L’ultimo episodio mi è capitato al Far East Film Festival di Udine: un pubblico appassionato e competente come quello friulano aveva appena acclamato, quale vincitore, l’emozionante filmone bellico del giapponese Takashi Yamazaki, The Eternal Zero; ed ecco sbuffare all’unisono quello stesso gruppetto di giornalisti e critici cinematografici, dal cui pulpito erano già partiti parecchi commenti altezzosi e sarcastici nei confronti di chi, come me, aveva espresso gradimento per il kolossal nipponico. Uno di loro si è persino lanciato in un pretestuoso e poco argomentato sermone su come il giudizio del pubblico, a Udine, tenderebbe a premiare i film più per il loro contenuto che per la forma, infilando poi nello stesso calderone opere diversissime tra loro e che in certi casi potevano vantare, al contrario, una regia calibrata e matura. A quel punto non ho resistito alla tentazione di contestarlo pubblicamente. Perché, se da un lato è vero che in certe manifestazioni cinematografiche il sistema di votazione e lo stesso controllo delle schede potrebbero essere formulati meglio, la divergenza di giudizi espressa con una acrimonia e una pomposità del tutto fuori luogo dal settore più elitario, oltranzista e autoreferenziale della critica cinematografica può strappare al massimo un sorriso di compassione. E allora, sebbene anch’io non mi trovi a concordare sempre coi giudizi espressi dalle platee festivaliere, tutt’altro, non posso fare a meno di ricordare le tante volte che a Locarno, negli ultimissimi anni, ho preferito il Premio del Pubblico a qualche incomprensibile, ermetico Pardo d’Oro. Un caso su tutti: la magnifica, per quanto ipertrofica (ben tre ore e quaranta minuti di spettacolo) epopea sportiva e musicale di Lagaan: Once Upon a Time in India, lungometraggio made in Bollywood al quale gli spettatori del festival svizzero tributarono, nel 2001, proprio il Premio del Pubblico.
Dalla durata “monstre” del filmone indiano ai 15 minuti circa di Carrozzella negra il salto è indubbiamente vertiginoso. Ma lo si deve affrontare, perché fatta questa lunga premessa è scontato ch’io offra qualche spiegazione più circostanziata, sul perché l’umorismo sfrontato del duo Lucci/Savina a Golfo Aranci ha fatto centro. Del resto di cortometraggi a sfondo meta-cinematografico ne circolano parecchi, in ambiente festivaliero. Ma quello in questione ha innanzitutto il merito di prendere di petto le storture del “politically correct”. E lo fa martellando sin dalle prime battute, allorché un team di film-makers apparentemente allo sbando si confronta, studiando il fenomeno a tavolino, su quali possano essere le strategie per battere sul loro stesso terreno quei cortometraggi buonisti, socialmente impegnati ma finti, che tendono ad accaparrarsi un sacco di premi. Davvero esilarante, irresistibile è l’elenco di titoli fittizi che viene sciorinato nell’occasione, un elenco che avrà succose integrazioni nel corso del film: basti pensare all’improbabile “Sanguino lento”, film con protagonista un moribondo, che avrebbe trionfato a un altrettanto iperbolico “Cordoglio Film Festival”. Viene qui da pensare al curriculum del produttore di film di genere dai titoli improponibili (roba come “Violenza a Cosenza”, “Mocassini assassini” o “Maciste contro Freud”) ipotizzato da Nanni Moretti ne Il caimano. Passando così dalla lavagnetta con segnate le più assurde categorie di personaggi da corto sociale (dal “nonno impiccato” al cumulativo “cieco zoppo”) alle dissertazioni su “Tre zampe di dolore”, straziante apologo cinematografico di timbro animalista, l’impianto teorico di Carrozzella negra è presto svelato. Per inciso questa divagazione su quanto la compassione per gli animali nella bislacca società di oggi possa superare quella per gli esseri umani, arrivando a creare maggior disagio nel pubblico, m’ha fatto istintivamente pensare a una delle opere cinematografiche più geniali degli ultimi anni: 7 psicopatici di Martin McDonagh, commedia nera nel cui impianto meta-cinematografico si ironizzava sulle regole non scritte della Hollywood attuale, ipocritamente più restia a mettere in scena la morte di un animale che una donna brutalmente massacrata.
Nel corto di Mario Savina e Emanuele Lucci lo svolgimento del tema, se così si può dire, ha riportato alla memoria di molti l’esperienza di Boris, che da noi è quasi la Bibbia del meta-cinema declinato in senso parodistico. Sono in parte d’accordo. Ma ci sono elementi per cui personalmente ho intravisto anche dell’altro, per esempio l’eco di un “prototipo” d’eccezione come Il caricatore, commedia in bianco e nero prodotta da Arcopinto che, nell’ormai lontano 1996, lanciò le giovani carriere di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata. Analoga sembra essere l’ansia dei protagonisti di realizzare a tutti i costi un prodotto indipendente. E anche l’esito surreale di certe situazioni pare orientarsi in quella direzione. Sta di fatto che il trio ben affiatato scelto per interpretare Carrozzella negra, ovvero Alessandro Borghi (il leader del gruppo, prestante e carismatico), Edoardo Monniello e Ruggero Cecchi, assicura la giusta verve a quelle gag che presentano la preparazione e successiva realizzazione del film in maniera picaresca, divertente, ma non gratuita; quantomeno in virtù dell’impressione che ogni stratagemma attuato dai tre serva a mettere in luce, goliardicamente, una delle tante aporie che caratterizzano il nostro cinema e l’ambiente dei festival. Fino all’escalation finale, con la riunione di un’ipotetica e scalcinata giuria pronta a regalare ancora qualche stilettata, da gustarsi col sorriso di Franti sulle labbra.
Stefano Coccia
SCHEDA TECNICA
Titolo originale: Carrozzella negra
Paese/anno: Italia/2014
Regia: Emanuele Lucci, Mario Savina Durata: 15′ 11”
Soggetto/sceneggiatura: Emanuele Lucci, Mario Savina
Fotografia: Matteo Piras
Interpreti: Alessandro Borghi (Mauro), Edoardo Monniello (Luca), Ruggero Cecchi (Giulio), Francesca Mascolo (sorella di Mauro), Gabriele Arena (Presidente dell’associazione)
Montaggio: Emanuele Lucci
Musiche: Luca Befera