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Bushido

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VOTO: 9

Per un pugno di Ryo

In media i film premiati dal pubblico di questo 26° Far East Film Festival li abbiamo apprezzati parecchio. Nel caso però di Bushido, lungometraggio accolto a Udine col non meno prestigioso Black Dragon Audience Award, si è trattato di un vero e proprio colpo di fulmine. E non è nemmeno la prima volta che nei confronti del regista, Shiraishi Kazuya, reagiamo così, considerando l’entusiasmo destato in noi nel 2021 da uno yakuza movie a dir poco superbo, e sanguigno, Last of the Wolves!
Sequel dell’acclamato The Blood of Wolves, il film in questione ci aveva mostrato un Shiraishi Kazuya in grado di rivisitare con brio quel filone caro un tempo a Fukasaku Kinji, esasperandone la crudezza, il cinismo, la ferocia e il nichilismo di fondo.

Grazie a Bushido, estemporaneo ritorno al jidai-geki o dramma in costume che già nel titolo riprende il codice di condotta dei samurai, siamo sempre più convinti che il cineasta giapponese, per noi più Maestro che semplice artigiano, abbia il dono di rapportarsi alla cultura cinematografica del proprio paese replicandone stilemi autorevoli e già codificati da qualche decennio, ma da un’angolazione sempre molto personale.
Shiraishi Kazuya fa un cinema d’altri tempi. E lo fa con stile. Invero lo sa anche adeguare alle necessità odierne, a una sensibilità (quella del pubblico, come pure la sua) che può essere leggermente mutata, rispetto al timbro narrativo e ai temi stessi suggeriti dalla Tradizione.
Nella vicenda di Yanagida Kakunoshin (ronin ovvero samurai decaduto) vi sono elementi rapportabili a forme rappresentative tradizionali come il rakugo – secolare racconto d’impronta farsesca – ma anche varianti impazzite, morali più disinvolte, audaci punti di fuga di un racconto messo comunque in scena con una perizia filologica da applausi a scena aperta.

Desta innanzitutto ammirazione che la parte iniziale del film sia incentrata sulla bravura di Yanagida Kakunoshin nel Go, gioco strategico giapponese di antiche origini, più che sull’abilità con la spada. Ciò instaura un apprezzabile mood filosofico e contemplativo. Fermo restando che le katane, al momento opportuno, sapranno esprimere il loro punto di vista, con implacabile spietatezza…
L’armonica architettura diegetica di Bushido, non immune comunque da ben costruiti cambi di ritmo e di scenario, conoscerà infatti una brusca, proficua accelerazione, allorché l’ingiusta accusa d’essersi appropriato di 50 Ryo (all’epoca una somma importante) produrrà un incontrollabile cortocircuito in Yanagida Kakunoshin e in ciò che resta della sua famiglia. All’ombra di vecchi rancori e torti mai puniti, lui vorrebbe ricorrere al suicidio rituale, il seppuku, ma la figlia Kinu lo convince a riscattare l’onore della famiglia in altro modo. A quel punto sarà la giovane donna a rischiare di finire in un pur lussuoso bordello, accettando un possibile futuro da geisha quale garanzia per quel debito. Da tale momento la narrazione si fa ancora più avvincente, seguendo in parallelo più piste. Fino a quel memorabile epilogo, attraverso il quale Shiraishi Kazuya sembra trovare un’apparentemente impossibile convergenza tra inderogabile rispetto del codice d’onore, punizione degli empi, ricerca di un destino più felice per tutti e decisioni dei protagonisti inaspettatamente improntate a buonsenso e magnanimità. Chapeau!

Stefano Coccia

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