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Brothers of the Night

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VOTO: 7

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A Vienna c’è un sottomondo i cui protagonisti sono dei giovani ragazzi dell’est che, grazie alla prostituzione, riescono a sopravvivere e mantenere le proprie famiglie, rimaste nel paese d’origine. Il cuore della loro attività è il Rüdiger, locale gay in cui, di notte, molti uomini cercano la compagnia di altri uomini. Questi ragazzi fanno delle giacche di pelle la loro armatura, atteggiandosi e conquistando i loro clienti con uno stile alla Marlon Brando.
Il sottomondo di cui si parla e i suoi protagonisti non sono il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma quanto da anni accade regolarmente tra le strade, i vicoli e locali notturni, fumosi e malfamati, della capitale austriaca. La verità, dunque, nient’altro che la verità, quella che si prova in tutti i modi a nascondere o, ancora peggio, a ignorare. A mostrarcela, facendosi carico della responsabilità di raccontarcela, non è il servizio di un TG o di qualche trasmissione televisiva di approfondimento, ma il regista libanese Patric Chiha nel suo crudo e scomodo Brothers of the Night, fresco vincitore del premio per il miglior documentario alla 31esima edizione del Festival Mix Milano, dove è approdato a più di un anno di distanza dalla fortunata premiere alla Berlinale 2016.
Alla kermesse meneghina, l’opera di Chiha si è aggiudicata come già detto il riconoscimento principale della sezione dedicata al cinema del reale, ma per dovere di cronaca andrebbe sottolineata la vera natura di un progetto che, secondo una pratica sempre più diffusa a tutte le latitudini, mescola senza soluzione di continuità i linguaggi del documentario con quelli della fiction, dando origine a un’osmosi tra reale e finzione. Brothers of the Night è di fatto una docu-fiction, un ibrido dove l’autore, tassello dopo tassello, compone una sorta di mosaico audiovisivo. I puristi potrebbero storcere il naso, ma in questo caso la scelta di mescolare i due estremi, con i relativi codici, è assolutamente funzionale alla tipologia di progetto. Cineasti come Gibney e MacDonald ci hanno dimostrato in più di un’occasione che una perfetta, pacifica ed equilibrata coesistenza e fusione tra le parti è possibile, per di più senza che l’una fagociti o schiacci l’altra. La scrittura a tavolino, che annienta azzerando completamente l’osservazione e la registrazione degli eventi nel loro manifestarsi davanti la macchina da presa, diventa un processo inevitabile e di conseguenza un modus operandi attraverso il quale di volta in volta ricostruire, rievocare e mettere in scena ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. Accettate le regole del gioco, solo allora sarà possibile entrare in sintonia con l’opera in questione e con gli intenti di colui che l’ha concepita.
Da parte sua, il regista libanese porta sul grande schermo una successione di scene con le quali ricostruisce delle situazioni che vedono i veri protagonisti delle vicende in azione e non degli attori protagonisti. Di conseguenza, è il gruppo di bulgari a interpretare se stesso. Ciò contribuisce a dare verità ai racconti, ma allo stesso tempo lo sforzo nel vestire i propri panni presuppone una perdita di verità quando dai brani di interviste si passa alle ricostruzioni di fiction. Lo stacco in quel momento si vede e non sempre la fusione o il passaggio del testimone danno gli esiti desiderati. Quando, al contrario, l’ostacolo viene bypassato, il meccanismo funziona e la fruizione riserva momenti di forte impatto.
In Brothers of the Night il racconto prende forma e sostanza più con le parole che con le immagini. Lo spettatore, infatti, potrebbe tranquillamente chiudere gli occhi e lasciarsi trascinare dal flusso orale dei protagonisti, poiché quello che scorre sul grande schermo passa in secondo piano rispetto a quello che, invece, arriva dalla componente sonora. Sono gli aneddoti, i ricordi e soprattutto i passaggi in cui i protagonisti parlano del loro passato, dei motivi che li hanno spinti a scegliere di percorrere la strada della prostituzione e di come la praticano. Il tutto senza filtri, senza epurazioni o censure verbali. E’ questo il cuore pulsante e il motore portante della timeline, ma anche il suo carattere distintivo.
Il regista racconta una Vienna nascosta, dura, dove qualsiasi comportamento è lecito in nome della sopravvivenza. Quello di Chiha non è, però, una pellicola sull’immigrazione come ad esempio il potentissimo Welcome Europa di Bruno Ulmer, che raccontava tra le altre le storie di alcuni immigrati arrivati nel Vecchio Continente e costretti a prostituirsi per sopravvivere, ma è un docu-film sul mondo della prostituzione, speculare per certi versi a Whore’s Glory di Michael Glawogger, con il quale condivide il medesimo approccio alla materia, ossia quello di raccontare senza mai giudicare.

Francesco Del Grosso

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