Carmen e Ana
Da sempre ricca di piacevoli e interessanti sorprese, la cinematografia sudamericana ha sempre dedicato grande attenzione a nuovi linguaggi della settima arte, strizzando, spesso e volentieri, l’occhio anche a messe in scena fortemente sperimentali. Questo è il caso, ad esempio, del lungometraggio Bring Me the Head of Carmen M., per la regia di Felipe Bragança e Catarina Wallenstein, presentato in concorso alla 55° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
Liberamente ispirato alla vita dell’attrice portoghese Carmen – al secolo Maria Do Carmo – Bring Me the Head of Carmen M. ci racconta le vicende della giovane Ana, affascinante attrice portoghese giunta a Rio De Janeiro al fine di girare un film. Particolarmente schiava del proprio aspetto fisico, la ragazza, al fine di arrivare a fine mese, è solita cantare e ballare la samba durante spettacoli di varietà. La paura, tuttavia, di non farcela a sfondare, la accompagna sempre nella sua quotidianità. L’incontro casuale con tre travestiti, al contempo, la aiuterà a sentirsi più in armonia con sé stessa.
Opera prima di Catarina Wallenstein, terzo lungometraggio per Felipe Bragança, il presente si fa notare immediatamente per la singolare messa in scena adottata – dai chiari rimandi ai maestri del cinema brasiliano – in cui scene in un curatissimo bianco e nero riguardanti la vita di tutti i giorni della giovane Ana si alternano sapientemente a momenti in cui sono sgargianti colori a fare da padroni di casa, per quanto riguarda le scene ambientate nella casa dei tre travestiti. Tale riuscita alternanza, effettuata anche mediante l’uso di numerosi flashback, ben sta a rappresentare il tormentato mondo interiore di Ana, una donna che, nonostante i numerosi sforzi, nonostante una cura maniacale del proprio corpo, dei propri movimenti e della propria gestualità, fatica ad approdare nel mondo delle grandi produzioni cinematografiche. Sono intensi primi piani e dettagli delle sua mani, del suo viso e della sua bocca che, con una resa finale magnetica ed estremamente raffinata, rendono alla perfezione ciò che la protagonista sta vivendo.
Tutto ciò rispecchia appieno, al contempo, lo stesso personaggio di Maria Do Carmo, la quale, proprio come la didascalia finale sta a comunicarci, nel 1955 è stata trovata morta all’interno del proprio appartamento con in mano uno specchietto portatile.
Sullo sfondo, la situazione politica e sociale del Brasile (di cui spesso la stessa Ana sente notizie alla radio). Una nazione, la presente, in cui il proibizionismo è ancora troppo forte, in cui, spesso e volentieri, è anche malvisto ballare la samba. Figuriamoci se si sceglie di cambiare sesso.
In poco più di un’ora, dunque, i due giovani registi sono riusciti a tracciare il ritratto non solo di una singola, potente personalità, ma anche di un’intera nazione, con una messa in scena del tutto personale -malgrado i chiari rimandi al cinema del passato – e dalla marcata personalità.
E così, ancora una volta, il Sud America si è rivelato uno dei luoghi maggiormente interessanti per quanto riguarda la produzione di prodotti cinematografici. Peccato soltanto che la distribuzione nostrana non sempre sembra accorgersene.
Marina Pavido