Home AltroCinema Documentari I tuffatori

I tuffatori

218
0
VOTO: 7.5

Mostar graffiti

Il documentario di Daniele Babbo un tuffo lo è di suo, a prescindere, nella storia recente dei Balcani. Poiché attraverso le testimonianze di quei tuffatori, più o meno giovani, che dell’antica tradizione di lanciarsi in acqua dal leggendario Stari Most hanno fatto un mestiere, si scoprono non soltanto risvolti della Mostar di oggi, ma anche pagine a tratti agrodolci e via via sempre più amare del passato cittadino, duramente segnato dagli anni della guerra nell’ex Yugoslavia.

Nel corso del 32° Trieste Film Festival proprio il Premio Corso Salani, sempre foriero di emozionanti scoperte, ha ospitato I tuffatori, non soltanto film validissimo ma ulteriore conferma dell’interesse dimostrato dai documentaristi nostrani, negli anni, verso quella realtà. Ancora molto forte in noi è ad esempio il ricordo di Mostar United, documentario di Claudia Tosi presentato al Genova Film Festival nel 2009: le tracce dei combattimenti che devastarono la città bosniaca si intrecciavano lì con il ruolo del calcio, responsabile ora di ulteriori divisioni e ora di una possibile speranza, da intendersi quale ricerca della coesione perduta. Sempre a Mostar era ambientato Quello che resta, presentato ugualmente a Genova ma nel 2014. Il lavoro di Antonio Martino si insinuava nell’immaginario relativo al conflitto bosniaco come una lama affilata, prendendo quale punto di riferimento uno dei suoi simboli più potenti: lo storico ponte ottomano del XVI secolo, fatto saltare in aria dall’artiglieria croata nel novembre 1993 e finito poi di ricostruire nel 2004.

Corsi e ricorsi storici: anche l’approccio di Daniele Babbo alla città parte da quel ponte; da come è oggi e da come lo ricordano gli abitanti, sia i più giovani sia quegli altri sportivi che non avevano smesso di tuffarsi da lassù nemmeno durante la guerra, magari sotto il tiro dei cecchini, quando era ancora in piedi la struttura originaria.
Ricompaiono storie di famiglia dai contorni tragici. Datate e malinconiche canzoni, un tempo assai popolari nella Jugoslavia di Tito. Il dramma odierno dell’emigrazione quale unica chance per le nuove generazioni, in un contesto sociale con ben pochi sbocchi lavorativi e ancora condizionato dalle divisioni interne. Coi riflettori puntati ovviamente sul flusso ininterrotto di turisti che, dal ponte stesso o dalle sponde del fiume Neretva, assistono – alcuni persino con l’intenzione di parteciparvi – al piccolo ma sentitissimo rito, rappresentato da quei tuffi temerari e coreografici.
Con rara sensibilità e senza forzature il regista ci fa entrare nella vita dei protagonisti, articolando bene i diversi piani temporali, dai quali traumi riferiti al passato recente e desiderio di ritrovare oggi una dimensione esistenziale almeno accettabile emergono con pari forza. Le ottime riprese dei tuffi hanno poi una valenza a parte. Anche perché, con gli scorci mozzafiato di Mostar sullo sfondo, rendono giustizia alla bellezza di questo antico borgo balcanico, cui l’assurdo conflitto degli anni ’90 ha recato ferite profonde, senza riuscire a cancellarne del tutto l’identità.

Stefano Coccia

Articolo precedenteUn ricordo di Cecilia Mangini
Articolo successivoSomething Better to Come

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

quattro × uno =