Oltre le apparenze
Talvolta è sufficiente inquadrare un tipo di film nella sua giusta dimensione – cioè quella pencolante tra buona e meno buona serie B – per restituire allo spettatore il giusto grado di aspettativa nei confronti di esso. Una premessa che ci pare calzi a pennello per un titolo come Black Butterfly, produzione statunitense con partecipazione tricolore grazie alla presenza del rampante Andrea Iervolino con la sua etichetta Ambi.
Trattandosi di thriller, pochi cenni sulla trama, ancorché non del tutto utili, come capiranno dall’epilogo coloro che vedranno il lungometraggio diretto dall’onesto mestierante televisivo Brian Goodman. Sottratto a viva forza dalla pubblicizzazione delle focaccelle made in Mulino Bianco, Antonio Banderas è Paul, sceneggiatore in crisi d’ispirazione e senza il becco di un quattrino ritiratosi in una località di montagna nel Colorado dopo la separazione dalla moglie. Dopo un alterco stradale con un camionista, incontra casualmente il giovane Jack (Jonathan Rhys Meyers) che lo difende dalle ire del guidatore di mezzi pesanti in un bar. Per ricambiare Paul invita Jack, dall’esistenza errante, a sostare qualche giorno a casa propria. Nel prologo però una donna madre di famiglia è scomparsa senza lasciare traccia e l’aspetto di Jack non è certo tra i più rassicuranti…
Partendo dal presupposto che un genere come il thriller ha continuamente bisogno di nuove suggestioni al fine di auto-alimentarsi, bisogna dare atto a Black Butterfly di provare ad alzare l’asticella in fatto di bizzarra originalità. Tentare senza però ottenere un risultato positivamente compiuto, poiché la sceneggiatura – opera di tali Marc Frydman e Justin Stanley, non esattamente penne illustri – si limita a cucire piuttosto meccanicamente brandelli di cinema altrui, contestualizzandole in atmosfere palesemente debitrici a quelle dei romanzi di Stephen King, non ultimo “Misery”. Così Black Butterfly – il titolo fa riferimento alla storia di un tatuaggio impresso nella schiena di Jack – si nutre e cresce all’interno di quella zona “oscura” che fa da cuscinetto tra realtà e finzione, fungendo anche da fonte d’ispirazione per l’artista. Nella prima parte del film sembra questa l’architrave portante: Jack che, pure ricorrendo alle maniere forti, prova a scuotere il derelitto Paul dalla mancanza di estro narrativo (medesimo problema degli sceneggiatori del film?) in cui è precipitato, anche a causa da convenzionale dipendenza alcolica. Il crescendo di suspense è discretamente modulato, Jonathan Rhys Meyers ancora una volta pare nato per interpretare ruoli a dir poco ambigui e Black Butterfly si lascia seguire anche solo per la curiosità spettatoriale di riuscire a rimettere le varie tessere del puzzle al posto giusto. Si comprende presto però che qualche conto non torna. Poi arriva il twist finale alla Shyamalan dei bei tempi andati a rimescolare le carte, gettando Black Butterfly in una riflessione di seconda mano sull’ingannevole prospettiva delle apparenze alla maniera dell’ovviamente ben più riuscito Shutter Island scorsesiano, dimostrando che, se le menti creative del film hanno fatto scrupolosamente i classici “compiti a casa”, non hanno purtroppo centrato il bersaglio di una spontaneità narrativa. Come del resto testimonia un contro-finale sin troppo auto-referenziale che suona tanto da rimedio assai peggiore del male stesso, in quanto a banalità.
Se dunque riconosciamo a Black Butterfly l’onore delle armi dovute ad un decente tentativo d’innovazione del genere suddetto, è giusto affermare che le inquietudini tipiche dei thriller a denominazione d’origine controllata allignano certamente altrove. Tanto più che, a visione ormai conclusa, il mistero più inspiegabile di Black Butterfly risulta essere l’estemporanea presenza – davvero una manciata di secondi – di Abel Ferrara, nelle insignificanti vesti del padrone dell’emporio di paese. L’avrà fatto per soldi oppure solo per amicizia verso la produzione? Il dilemma, questo sì, è destinato a rimanere insoluto.
Daniele De Angelis