Figli della stessa terra
L’Irlanda. La provincia. L’affascinante Ros Muc, nella contea di Galway. La vita di campagna che si contrappone al sogno della grande metropoli. E poi, finalmente, un lungo viaggio, la grande città, Boston, gli Stati Uniti. La vita del celebre pugile irlandese Sean Mannion – vera e propria istituzione in patria – potrebbe essere paragonata a un romanzo, tanto è stata ricca di avvenimenti. Eppure, un elemento che ricorre costante c’è: il pugilato. Praticato fin da giovanissimo, il pugilato ha spesso salvato il giovane Sean da cattive frequentazioni e strade sbagliate. Ha saputo regalargli sia gioie che dolori, come è accaduto nel 1984, durante la finale per il titolo mondiale al Madison Square Garden di New York, quando Mannion fu sconfitto principalmente a causa di una ferita all’occhio.
Un evento, questo, che ha segnato per sempre sia la sua carriera di pugile che, più in generale, la sua stessa vita, la quale ci viene raccontata dal documentarista irlandese Michael Fanning (qui al suo primo documentario per il cinema) in Rocky Ros Muc, presentato all’11° edizione dell’Irish Film Festa, nonché vincitore come Miglior Documentario al Galway Film Fleadh 2017.
Optando per una struttura in linea di massima piuttosto classica, questo interessante lavoro di Fanning ci racconta la vita di Sean Mannion avvalendosi di numerose testimonianze di amici e parenti, oltre che di storici, scrittori e persino dello stesso sindaco di Boston, anch’egli irlandese di nascita, anch’egli – proprio come il nostro protagonista – trasferitosi fin da giovane negli Stati Uniti. E così, raccontando uno sport tanto nobile quanto pregno di significato come il pugilato (qui usato anche – e soprattutto – come metafora), viene messo in scena principalmente il senso di appartenenza che ogni uomo prova nei confronti della propria terra di origine, e che, anche una volta lontano dal proprio luogo di nascita, resterà sempre e comunque forte per il resto della vita. Nel caso del nostro Mannion, dunque, lo sport da lui praticato si fa principalmente mezzo di comunicazione, di socializzazione, simbolo di una propria, marcata identità. Una sorta di “marchio di fabbrica”, se vogliamo, che lo accompagnerà per tutta la vita. Anche quando la sua carriera sul ring sarà finita da un pezzo.
E così, senza mai perdere di ritmo, ma riuscendo ad appassionare lo spettatore fin dai primi minuti, Rocky Ros Muc – intervallando le classiche interviste a vecchie fotografie (con le quali il regista si è divertito, in fase di post produzione, ad inserire effetti non solitamente convenzionali, ma, tuttavia, piuttosto azzeccati), a filmati di repertorio e anche, in modo dinamico e bizzarro, a vecchie locandine di incontri di pugilato – si classifica non solo come la appassionante storia di Sean Mannion, ma anche come la storia di un intero popolo, di intere generazioni con il mito dell’America, ma che, di fatto, altro non faranno che appartenere per sempre ai loro luoghi di origine (come ci viene detto, tra l’altro, anche dalla voce fuori campo, con suggestive inquadrature del mare, man mano che ci si avvia alla chiusura del documentario).
La storia di un singolo, che, di fatto, diventa una storia universale, dunque. E, come sappiamo, niente come la Settima Arte potrebbe rendere così bene un concetto del genere.
Marina Pavido