Il gringo volante
Il saggio è solito dire che i soldi non cadono mica dal cielo, ma evidentemente non ha avuto modo di incontrare o non ha mai sentito parlare di Barry Seal, ex pilota della Trans World Airlines diventato negli anni ottanta contrabbandiere di droga e successivamente informatore per la DEA. Lui di dollari “sporchi” ne ha avute valige intere, accumulando denari e aprendo conti in mezzo mondo, tanto da non sapere più dove depositarli. Su una storia così del resto Hollywood non poteva non gettare gli occhi. Detto fatto e così in un battito di ciglia si è tramuta in un biopic per il grande schermo dal titolo American Made (da noi Barry Seal – Una storia americana), adattato da Gary Spinelli e messo in quadro da Doug Liman, che atterra nelle sale nostrane con Universal Pictures a partire dal 14 settembre.
Drammaturgicamente e narrativamente si assiste alla solita incontrollata salita, alla quale segue l’altrettanto solita rovinosa caduta. Una parabola, questa, che al cinema in più di un secolo ha trovato innumerevoli volte spazio, anche per il desiderio epidermico e irresistibile dei produttori a stelle e strisce (e non solo) di rifilare allo spettatore di turno la morale che certe esistenze, una volta terminata la fortunata scalata, sono destinate a non avere un happy ending, quanto piuttosto una rovinosa caduta. Tranquilli non stiamo spoilerando, anche perché quella di Barry Seal è una storia vera che ha trovato spazio nelle cronache per moltissimi anni e della quale si conosceva già l’epilogo. Ciononostante non entreremo ulteriormente nello specifico delle dinamiche narrative per non rovinare la visione a coloro che, prima di aver messo gli occhi sul film, non ne conoscevano gli sviluppi.
Ovviamente la storia seppur vera, una volta passata dalla fase di scrittura cinematografica, ha fisiologicamente dovuto prestare il fianco a tutta una serie di romanzesche rivisitazioni per fare in modo che il racconto stesso riuscisse ad adagiarsi al meglio su una timeline di poco meno di due ore. Di conseguenza, la veridicità degli eventi è stata per forza di cose più o meno alterata, acquistando nelle mani di Spinelli e poi di Liman un viraggio quasi da black-comedy, con quel tocco di spy-movie che non guasta mai.
Il risultato è un mix che vive di lampi, zoppicante drammaturgicamente, ma tenuto a galla da un buon ritmo che rende piacevole e scorrevole la visione. E se il ritmo è l’ingranaggio che funziona meglio, il merito è del lavoro dietro la macchina da presa di Liman, che della gestione del ritmo ha fatto il suo marchio di fabbrica (vedi The Bourne Identity, Jumper e Mr. & Mrs. Smith). A non funzionare allo stesso modo è la scrittura, ridondante, poco incline alla concretezza e più alle futili digressioni. A farne le spese è in primis Tom Cruise che finisce con il gigioneggiare più del dovuto per potere assecondare in tutto e per tutto il tono assunto dal racconto e dal personaggio che è stato chiamato a interpretare. Il suo Barry Seal è divertente, ma a volte arriva appena al limite della macchietta. Arginare tale deriva è per l’attore americano il compito più difficile. A volte ci riesce e altre no. Fatto sta che almeno ha smesso di prendere gli aerei al volo come gli è accaduto puntualmente nei capitoli di Mission: Impossible, per tornare al posto di guida come trent’anni fa in Top Gun. Il decollo spericolato e disperato di Barry Seal con il biplano ultraleggero dalla pista improbabile situata nella giungla sudamericana ci riporta indietro al lontano 1986. Maledetta nostalgia canaglia.
Francesco Del Grosso