Espiazione
Quel è il prezzo di un errore che è costato la vita a una persona innocente? In che modo si riuscirà a farsi perdonare e a perdonare sé stessi? Queste sono le domande che tormentano ogni giorno Reza, coprotagonista del lungometraggio Ballad of a White Cow, presentato in concorso alla Berlinale 2021 – nella sua speciale edizione online – e diretto dai registi iraniani Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam.
Reza, dunque, è un giudice che ha firmato la condanna a morte per Babak, ingiustamente accusato di omicidio. Mina, la moglie della vittima, dal canto suo, si trova in difficoltà economiche e vive con la figlioletta sordomuta. Quando si scopre che suo marito è stato giustiziato ingiustamente, Reza farà di tutto per espiare le proprie colpe, lascerà il lavoro e aiuterà in ogni modo Mina, diventando per lei una persona fidata, ma non rivelandole mai la sua vera identità. A cosa porterà questa singolare situazione?
Come di consueto all’interno della ricca e variegata filmografia iraniana, i due registi hanno optato, qui, per una messa in scena il più possibile essenziale, che di un crudo realismo fa il suo principale cavallo di battaglia. Tutto è affidato, dunque, alla maestria dei due bravi interpreti (nel ruolo di Mina troviamo la stessa regista Maryam Moghaddam), alla gestione degli spazi (le case dove di volta in volta abita la protagonista sono trattate quasi alla stregua di veri e propri personaggi, quali testimoni silenti di ogni segreto) e a una costante tensione di fondo, ulteriormente accentuata nei momenti apparentemente più idilliaci.
Sono rari, rarissimi i primi e primissimi piani dei personaggi. Tutto viene ripreso nel suo insieme come se l’essere umano stesso non venisse più considerato in quanto tale. E di fronte a tali difficoltà, la legge, dal canto suo, sembra alquanto cinica e impietosa, in grado di proclamarsi addirittura autorizzata da Dio quando c’è da decidere circa la vita o la morte di qualcuno.
Riuscirà mai Reza a espiare le proprie colpe? Riuscirà mai l’uomo a perdonarsi? Tali quesiti e i conseguenti risvolti sono assai più complessi di quanto si possa immaginare. E a un certo punto sono esclusivamente raffinati e sottilissimi giochi di sguardi a parlare chiaro, quando non c’è bisogno di parola alcuna.
E poi, non per ultimo, c’è il cinema. La figura della bambina sordomuta che, al contempo, è anche una grande cinefila sta a ricordare tanto alcuni personaggi di Abbas Kiarostami o di François Truffaut. Proprio ricordando il lungometraggio Bita (Hajir Dariush, 1972), la bambina è stata chiamata con il nome della protagonista. E il cinema, dal canto suo, è perfettamente in grado di farsi capire e di trasmettere emozioni anche a chi non è in grado di sentire. Una vera e propria ventata di freschezza all’interno di un lungometraggio – il presente Ballad of a White Cow – dove nessuno è realmente innocente e nessuno realmente colpevole, dove molti quesiti sollevati sembrano destinati a non trovare mai una risposta e dove un profondo senso di colpa si fa immediatamente attore principale in un vero e proprio gioiellino della cinematografia iraniana contemporanea.
Marina Pavido