La febbre dell’oro
C’era una volta il west. Ma non sapevamo che si potesse ricreare in Irlanda. An Klondike, fosse anche solo per questo, è un film che merita di essere ricordato: primo western irlandese DOC, ha per giunta un’altra prerogativa assolutamente degna di nota, e cioè l’utilizzo del gaelico; scelta emblematica, questa, che nelle locali produzioni cinematografiche e televisive va affermandosi sempre di più, in particolare quando è di scena il genere.
Ma c’è anche un altro aspetto molto interessante, emerso all’Irish Film Festa durante l’incontro coordinato da Susanna Pellis con il regista Dathaí Keane, il produttore Pierce Boyce, gli interpreti Dara Devaney e Sean T. Ó Meallaigh (già visto all’opera nel corto Love is a Sting). Un simile lavoro nasce infatti come serie televisiva, solo che in fase di montaggio (l’autore stesso si è formato come montatore, giova rimarcarlo) ci si è resi conto che il progetto aveva anche altre potenzialità. E così si è pensato di affiancare alla serie una versione per il grande schermo, con la storia sintetizzata diversamente e un finale che risultasse alternativo al massimo, rispetto a quanto visto nei quattro episodi destinati alla televisione.
A margine di tutto ciò, possono essere rintracciati determinati motivi di fascino al pari di quegli scompensi narrativi, dei quali la versione cinematografica indubbiamente soffre, compressa com’è in una forma che tende a sacrificare eccessivamente le parabole dei personaggi secondari.
Con le location sapientemente rintracciate nel Connemara, tra territori boschivi, corsi d’acqua e scenografie di tutto rispetto allestite per rappresentare le varie catapecchie o addirittura i saloon, gli uffici del telegrafo e gli altri edifici in legno che dovevano caratterizzare una cittadina di frontiera, nel Canada di fine Ottocento, An Klondike rappresenta l’epoca della grande corsa all’oro (Klondike gold rush) dal punto di vista di tre immigrati irlandesi, tre giovani fratelli dall’indole assai diversa tra loro che accettano di separarsi dal padre, anziano e malato, per inseguire quel sogno di veloce arricchimento e benessere che potrebbe anche rivelarsi un miraggio.
Nel film il carattere tradizionale irlandese esce fuori anche nei suoi aspetti meno raccomandabili, se si pensa alle risse da bar e a certe decisioni ingenue dei protagonisti, evidenziando però al contempo gli slanci di generosità, le scelte più passionali, il senso della famiglia e quell’euforia che può contagiare chiunque, al ritmo di una giga. Certi rudi contrasti maschili e una dimensione famigliare sempre pronta a sfaldarsi per poi ricomporsi sono ciò che colpisce di più, in un plot che acquisisce credibilità proprio grazie all’accurato lavoro sul set, sia che saltino all’occhio le già menzionate scenografie sia che ci si soffermi sui costumi, non riciclati da altre produzioni ma confezionati per l’occasione con estrema cura. Una regia puntuale, per quanto priva di particolari slanci creativi, regala forse il meglio nella scena così grottesca del duello con le pistole tra un borioso possidente locale e uno dei tre fratelli, episodio spiazzante per la dinamica del duello stesso, nonché per le sue conseguenze. Ma una punta di amarezza rimane, come accennato in precedenza, per via dei tanti, troppi personaggi di contorno (dalla diafana e maliziosa proprietaria del saloon, Belinda, all’energumeno indiano che sbanca il lunario partecipando a combattimenti clandestini) introdotti nel racconto in modo senz’altro vivace, ma persi per strada (quantomeno nella versione cinematografica) con eccessiva facilità.
Stefano Coccia