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I Used to Live Here

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VOTO: 7

Fragili e terribilmente meravigliosi   

L’adolescenza. Una delle età più belle e più complicate che ci siano. Un’età in cui l’essere accettati dai propri coetanei ed il sentirsi amati sono di importanza vitale. Un’età in cui si è terribilmente fragili: meravigliose creature in costante cambiamento. I Used to Live Here, presentato in anteprima durante la nona edizione dell’Irish Film Festa – per la regia dell’emergente Frank Berry – racconta tutto questo: la storia di tanti ragazzi alle prese con problemi familiari, complicati rapporti con i coetanei e primi amori.
Siamo a Tallaght, nella parte ovest di Dublino: Amy ha perso la madre da pochi anni e vive con il padre, il quale dipende totalmente da lei. David è il suo unico amico. Anch’egli deve fare i conti con una situazione familiare complicata, data l’anaffettività dei genitori. Un giorno, la vita della cittadina viene sconvolta dalla notizia del suicidio di un conoscente di Amy. Notizia, questa, che turberà profondamente i giovani protagonisti e li spingerà a rapportarsi a qualcosa fino ad allora per loro sconosciuto.
Tema non facile, questo, da trattare, considerando il fatto che – spesso e volentieri – parecchi cineasti “temerari” hanno tentato l’impresa scadendo in pericolosi luoghi comuni e dimostrando una conoscenza dell’argomento decisamente scarsa. Questo, però, non è il caso di Frank Berry. Il regista, infatti, vanta una lunga esperienza nell’ambito di comunità che si occupano di ragazzi che – per un motivo o per un altro – fanno fatica ad adattarsi alla vita in società. E questo film è stato realizzato proprio con i membri di una di queste comunità. Gli interpreti – alcuni dei quali, tra l’altro, giovanissimi – sono, dunque, tutti alla prima esperienza come attori e, proprio per questo motivo, le loro più che convincenti prove attoriali sorprendono non poco, in quanto frutto soltanto di un breve laboratorio di recitazione in vista delle riprese. A questo punto – volendo fare una considerazione del tutto “politically scorrect” – si potrebbe anche affermare che le loro performances convincono addirittura più delle interpretazioni di chi fa questo mestiere da anni e che recita anche in lungometraggi di grande distribuzione. Onde evitare di andare fuori tema, però, evitiamo qualsiasi ulteriore commento a riguardo.
Poca importanza ha una regia acerba e non sempre perfetta. Poca importanza ha l’uso costante – spesso eccessivo ed ingiustificato – di camera a spalla, che prevede, spesso e volentieri, inquadrature poco funzionali alla narrazione. Quello che conta è che questa opera prima di Frank Berry è un prodotto sentito, onesto e che non calca mai la mano sui temi trattati, rischiando di rendere il lavoro pericolosamente didascalico.
Si potrebbe, dunque, addirittura affermare che, forse, uno sguardo “vergine”, non eccessivamente contaminato dal punto di vista prettamente cinematografico, possa essere una delle condizioni ideali per creare un buon lungometraggio. E, a questo punto, si potrebbe anche dare ragione alla scuola di pensiero secondo la quale un regista deve entrare a contatto il minor numero di pellicole possibili, in vista della creazione di un nuovo prodotto. Teoria, questa, non sempre accettata; ma dalla quale, indubbiamente, potrebbero nascere interessanti discussioni. Ma questa è un’altra storia.

Marina Pavido

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